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Le vittime preferite dai militari infedeli erano soprattutto migranti. Minacciata anche l’avvocata che per prima ha denunciato

È una sentenza pesante, e non solo nel merito, quella che ha colpito 22 carabinieri della caserma di Aulla, in Toscana, per una lunga e gravissima serie di abusi commessi tra il 2016 e il 2017. I militari, all’epoca in servizio attivo, sono stati condannati complessivamente a 96 anni di carcere. Le pene, distribuite in base alla gravità delle responsabilità individuali, includono condanne fino a oltre nove anni per i due principali imputati: il sottufficiale Alessandro Fiorentino e il collega Amos Benedetti, mentre altri due carabinieri, Gianluca Varone e Andrea Tellini, hanno ricevuto pene di cinque anni e un mese ciascuno. Il processo è iniziato a partire da un’indagine avviata dalla Procura di Massa, che ha ricostruito uno scenario inquietante, fatto di soprusi e violenze sistematiche ai danni di numerose persone fermate dai militari. Le vittime erano perlopiù immigrati, spesso fermati per reati minori e, in alcune circostanze - ha reso noto “Il Fatto Quotidiano” -  senza una reale motivazione. Sono stati sottoposti a pestaggi, intimidazioni, torture fisiche e psicologiche, fino ad arrivare ad atti gravemente umilianti. Addirittura, ci sarebbe stato un caso in cui un uomo, dopo essere stato fermato dai militari della caserma di Aulla, sarebbe stato sottoposto a un’ispezione rettale in cerca di stupefacenti. Questo, nonostante il protocollo che, in casi come questi, prevede invece una semplice radiografia. A incastrare il gruppo di militari sono state diverse intercettazioni ambientali e telefoniche. Ciò che è emerso dalle conversazioni intercettate è un atteggiamento spavaldo, violento e spesso razzista, portato avanti dai carabinieri condannati. Non erano rari, infatti, i commenti sprezzanti e disumani contro i migranti, spesso definiti “zingari” e “negri”. In un caso, sono arrivati persino a parlare del pubblico ministero che stava conducendo le indagini relative alla loro condotta, dicendo che “doveva morire”. Non si trattava, ad ogni modo, di episodi isolati, ma di un vero e proprio metodo consolidato in seno a un clima di impunità e copertura interna, con alcuni carabinieri che affermavano apertamente di sentirsi protetti dai loro superiori. L’impressione generale, corroborata dai dialoghi intercettati, è quella di una caserma trasformata in una zona franca, dove la divisa era diventata uno scudo per esercitare violenza e potere. A denunciare per prima gli abusi è stata un’avvocata che rappresentava alcune delle vittime coinvolte. Un’iniziativa che le è costata minacce e intimidazioni, al punto da dover essere a sua volta tutelata da un collega legale, Davide Paltrinieri. Alcuni carabinieri onesti, che hanno deciso di collaborare con le indagini, non hanno avuto vita facile. Sono stati etichettati dai colleghi coinvolti nella vicenda come “infami”, per poi essere isolati all’interno di un clima di chiusura e protezionismo. Altre polemiche sono emerse quando il generale Emanuele Saltalamacchia, all’epoca comandante della Legione Toscana e in seguito promosso a comandante generale, ha espresso contrarietà all’uso di microspie nelle caserme coinvolte. Una misura che, secondo Saltalamacchia, risultava sproporzionata. Ad ogni modo, il processo si è concluso in primo grado con una sentenza che conferma la gravità dei fatti accertati.

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