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La vicenda riguarda le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio

La Procura di Caltanissetta che indaga sulle stragi del 1992, ha chiesto il rinvio a giudizio per i generali dell'Arma dei Carabinieri, Angiolo Pellegrini e Alberto Tersigni (entrambi in pensione).
A riportarlo è oggi il quotidiano La Repubblica. 
La contestazione dei pm, coordinati dal procuratore Salvatore De Luca e dall’aggiunto Pasquale Pacifico, è pesante: depistaggio.
Il motivo? I due ufficiali, che a lungo hanno prestato servizio alla Direzione investigativa antimafia, avrebbero intralciato le indagini finalizzate ad acquisire elementi per comprovare l’autenticità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio ex agente della polizia penitenziaria e vicino ai clan, riguardanti la strage di Capaci.
Secondo i magistrati nisseni il contenuto delle dichiarazioni di Riggio non sarebbe stato approfondito e vagliato accuratamente dai due ufficiali della Dia, che gestirono in tempi diversi la collaborazione. 
Ma procediamo con ordine. 
La figura di Riggio era tornata alla ribalta nel 2018 quando per la prima volta aveva riferito ai pm nisseni una serie di vicende misteriose che ruotavano sull'attentato del 23 maggio 1992. 
Sentito durante il processo Capaci bis aveva raccontato di aver appreso importanti dettagli sulla strage da un altro poliziotto, Giovanni Peluso (indagato ed archiviato). Non solo. Aveva aggiunto che in un dato periodo avrebbe fatto parte di una non ben identificata struttura dei Servizi che si occupava della ricerca di latitanti e che al contempo era stato contattato dalla Dia. 
Secondo la spiegazione data da Riggio avrebbe dovuto dare una mano per catturare l'allora latitante corleonese Bernardo Provenzano in quanto parente (cugino, ndr) di Carmelo Barbieri, un soggetto legato all'entourage di Provenzano. 
Ai magistrati riferì anche di un progetto di attentato, nel 2000, nei confronti del giudice Leonardo Guarnotta.
Riggio sostiene di averne parlato con gli ufficiali della Dia. 
Pellegrini però, quando fu sentito al processo trattativa Stato-mafia, aveva detto di non sapere quale fosse l'episodio criminale particolare a cui fece riferimento Riggio” e che il collaboratore di giustizia disse solo di aver saputo "che un suo conoscente, tale Peluso, per conto della criminalità doveva venire a Palermo a fare qualcosa".
Furono anche fatte delle attività di intercettazione, ma non sarebbe emerso nulla. 
La Procura nissena, però, non è convinta delle spiegazioni offerte dagli ufficiali sulla gestione di Riggio.
In precedenza era stata la Procura generale di Palermo ad aver espresso seri dubbi sulla gestione del collaboratore Riggio, partendo dalla considerazione che fino al maggio 2001 non si trovano documentazioni sul rapporto confidenziale avviato mesi prima. 
“La mancanza di relazioni di servizio, o di appunti riservati, nei primi 16-17 mesi della pluriennale interlocuzione tra la Dia di Palermo ed il pregiudicato e confidente Pietro Riggio è significativa - aveva affermato il sostituto procuratore generale Giuseppe Fici rivolgendosi alla Corte d'Assise d'Appello, presieduta da Angelo Pellino - Non sono mai state redatte relazioni e appunti riservati? E perché, se così è? Come si fa a gestire in questo modo, quando poi nella fase successiva è ben documentato come correttamente deve essere gestito un rapporto di questo genere? E' sparito tutto? E perché? Sono domande a cui non si può e non si deve sfuggire nel valutare le circostanze riferite dal Riggio che non sono state confermate dai due ufficiali dei carabinieri, prime fra tutti il progetto di attentato al dottor Guarnotta, ma anche il disinteresse all'idea del Riggio, che aveva in mano la fascetta di banconote, che con una microspia avrebbe potuto viaggiare verso Provenzano”.
Domande che forse potranno trovare risposta in un processo.
La procura di Caltanissetta ha già firmato la richiesta di rinvio a giudizio con l’udienza preliminare che si terrà a fine mese. 
Intanto lo stesso Pellegrini, raggiunto da La Repubblica, allontana da sé ogni responsabilità ("Se ho commesso qualche errore l’ho fatto certamente in buona fede") e ribadisce il proprio impegno nella lotta alla mafia.

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