Piero Calamandrei, padre costituente e grande giurista affermò “quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra”.
Se è vero, com’è vero, che l’indipendenza e l’autonomia tra il potere politico e il potere giudiziario rappresentano un caposaldo fondamentale dello Stato costituzionale anche vero che, soprattutto negli ultimi 30 anni circa, abbiamo assistito ad un conflitto costante tra i due poteri dello Stato, caratterizzato dalla crescente incidenza delle indagini giudiziarie sulle dinamiche della politica e su una certa “ingerenza” della politica sul fronte giudiziario.
Secondo Giovanni Falcone “la magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico”. Questa affermazione ci restituisce perfettamente il difficile rapporto tra la magistratura e la politica in Italia: questi ultimi trent’anni della Repubblica hanno infatti visto un susseguirsi di vicende giudiziarie, di inchieste, di processi e accuse reciproche, che sembra arduo vedere una possibile soluzione a tale relazione, almeno per il momento.
In uno Stato di diritto e democratico è certamente necessario che il potere politico e il potere giudiziario siano separati: la politica deve rispettare l’indipendenza della magistratura, astenendosi da qualsivoglia iniziativa che ne ostacoli o ne impedisca il corretto esercizio e la magistratura, a sua volta indipendente, svincolata da possibili ingerenze del potere politico e, pertanto, come prevede del resto lo stesso articolo 104 comma 1 della Costituzione, autonoma da ogni altro potere.
Fino a qua tutto chiaro. Semplice. Ma non è così.
Purtroppo a volte, quasi “fisiologicamente”, i due poteri sono costretti a rapportarsi dall’ordinamento, per esempio sulle nomine dei membri del CSM, per un terzo eletto dal Parlamento in seduta comune (c.d. membri non togati), o alle nomine dei membri della Corte costituzionale, eletti anch’essi per un terzo dei membri dal Parlamento in seduta comune.
Il dibattito sta tutto in un semplice paradigma: da un lato i politici si definiscono sovente “perseguiti” dalla magistratura solamente per la loro appartenenza a questo o quel partito, per portare avanti un’idea piuttosto che un’altra; dall’altro, gli inquirenti affermavano che la conduzione di inchieste e di indagini non ha nulla a che vedere con le valutazioni politiche dei soggetti, ma rappresenta semplicemente l’esercizio dell’art 112 della Costituzione, che li obbliga ad “attivarsi” non appena si abbia una notizia di reato.
Insomma, da Mani Pulite, passando per Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, arrivando sino al processo in corso a Palermo a carico del Ministro Salvini, la cronaca ha offerto ed offre tantissime storia ma solo il tempo e la giustizia daranno le risposte a tutti gli attuali dubbi e interrogativi su questo rapporto difficile e delicatissimo.
Foto © Imagoeconomica
Quella relazione sempre complicata tra giustizia e politica
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- Alberto Castiglione