Parla il legale del boss Gaetano Scotto. Prossima udienza il 21 maggio, poi la sentenza. Pesa l’assenza di Vincenzo Agostino, deceduto nelle scorse settimane
"Prima udienza senza nonno Vincenzo. È pesante, ma noi resistiamo". A dirlo è Nino Morana, il nipote di Vincenzo Agostino morto pochi giorni fa a 87 anni, durante l'udienza di venerdì 3 maggio presso l’aula bunker del Pagliarelli di Palermo nel corso del processo che indaga sul duplice omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini.
È la prima udienza dopo la morte di suo nonno, il padre dell’agente di polizia del commissariato di San Lorenzo ucciso dalla mafia e non solo perché dava la caccia ai latitanti. Un uomo che da 35 anni non si tagliava la barba per un giuramento fatto sulle bare del figlio e della nuora.
Sul banco degli imputati ci sono il boss dell'Acquasanta Gaetano Scotto e il sedicente amico d'infanzia di Nino Agostino, Francesco Paolo Rizzuto, rispettivamente accusati di duplice omicidio aggravato in concorso e di favoreggiamento aggravato.
Presenti in aula, davanti alla Corte d’Assise di Palermo presieduta da Sergio Gulotta (a latere Monica Sammartino), anche le figlie di Agostino, Nunzia e Flora, per la prima volta senza il padre, entrambe parte civile nel processo rappresentate dall’avvocato Fabio Repici. Presenti fra il pubblico anche l'associazione Our Voice e alcuni studenti di Giurisprudenza.
A prendere parola durante l’udienza è stato l'avvocato Giuseppe Dacquì, legale di Scotto che ha chiesto di assolvere il suo assistito “per non aver commesso il fatto”.
Per lui, questa arringa difensiva è stata come “salire su un treno in corsa partito qualche anno fa”. Eppure, nonostante ciò, all’avvocato questo è bastato per squalificare il processo perché “basato su assiomi, deduzioni illogiche, affermazioni contraddittorie e teoremi non dimostrati”. Soprattutto, da parte dei collaboratori di giustizia. Tra questi Giusto Di Natale, Vito Galatolo, Giovani Brusca, Francesco Marino Mannoia, Francesco Di Carlo, Giuseppe Marchese, Francesco Onorato e Vito Lo Forte.
Per Dacquì il duplice delitto Agostino-Castelluccio “non è un omicidio di mafia”. Dietro il 5 agosto ’89, ha aggiunto, “c’è lo stesso filo rosso della strage di Via d’Amelio. La stessa regia, la stessa sceneggiatura, lo stesso copione che fa capo ad Arnaldo La Barbera. Grande manovratore, grande depistatore. Più che super poliziotto, dovremmo chiamarlo super inquinatore”.
Il presidente della Corte, Sergio Gulotta
Quanto al depistaggio delle indagini, invece, “inizia con l'arrivo di Guido Paolilli, che nottetempo dalla sua città di Pescara si precipita a Palermo dov’era stato in servizio alla Polizia di Stato insieme a Nino Agostino”. E lo fa “apparentemente senza arte né parte - ha aggiunto l’avvocato -. Arriva a Palermo non per confortare i familiari di Nino Agostino con cui vi erano rapporti stretti di amicizia, ma quale esecutore di un preciso mandato. Cioè quello di eliminare prove che avrebbero portato alla verità, alle vere ragioni del duplice omicidio. Paolilli, insieme a La Barbera, è il grande affossatore della verità, il seppellitore delle ragioni del delitto e dei nomi dei suoi esecutori”.
Per Dacquì, infine, quello in corso è “un processo mediatico turbato dal clamore del pubblico, dalle notizie giornalistiche, dalle gratuite anticipazioni sulla colpevolezza degli imputati” e anche “dalle aspettative dei familiari delle vittime”. Parole dal retrogusto amaro, specie ora che Vincenzo Agostino non c’è più. La ricerca della verità non può essere una colpa. Ed è noto alle cronache, e anche alla Corte d’Assise di Palermo, che Agostino non ha mai voluto cercare “una” verità, bensì “la” verità sulla morte del figlio e della nuora. Una ricerca che, ora più che mai, continuerà grazie a suo nipote Nino Morana e alle sue figlie Flora e Nunzia.
Foto © Paolo Bassani
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