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carminati massimo 600di Pietro Orsatti
"Sta storia sta a finì ‘no schifo". Se ne sta seduto su una sedia di plastica, tra gli scarichi dei motorini, al bar di un quartiere che fino a trent’anni fa era considerato periferia e che oggi è quasi centro. Al collo, segnato dal sole e dall’età, qualche etto d’oro. In una mano il “peroncino” di ordinanza, nell’altra il pacchetto di Marlboro. Un bar in quella terra di mezzo che separa Tor Marancia dalla Montagnola, sospesa fra le case popolari e la collina residenziale di Poggio Ameno, dove negli anni Settanta e Ottanta le “batterie” e l’eroina facevano la differenza. In questo bar ha trascorso una vita intera, vedendo Roma cambiare. È una figura del passato, una specie in via di estinzione.
Incipit di “Grande Raccordo Criminale” di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti (Imprimatur editore – febbraio 2014)

Violenta, estranea, incattivita. Roma, anno domini 2015. Città di furbi, complici, vittime e carnefici. Popolata da quasi cinque milioni di fantasmi, ostaggi del sistema di potere che l’ha gestita fino a oggi solo per garantire a qualsiasi costo una governabilità ormai impossibile. Tutti insieme nel girone infernale gestito da una folla di omini de panza. Si alza il sipario sull’ultima e insopportabile messa in scena di una capitale europea che fa finta di stupirsi (madavero?) quando l’osceno ricettacolo di interessi politici, privati e criminali viene sbattuto lì, in prima pagina. Prima niente, mi raccomando. Prima di Buzzi e Carminati e della folla immensa di soci e complici, la mafia a Roma nun c’era, nun c’è mai stata: stamo a scherza’? Nessuno ha voglia di scherzare. Anche perché di contare morti per strada, cantieri fantasma, appalti truccati, servitori dello Stato corrotti, interessi innominabili di uomini degli apparati dello Stato, non ci siamo stancati. Proviamo nausea semmai, stanchezza no.
(Incipit di “Roma Brucia” di Pietro Orsatti – Imprimatur editore ottobre 2015)

L’avvocato

Il grande show è quasi finito. Che grande non è stato, anzi, insieme al processo Aemilia quello a Mafia Capitale è stato uno dei “maxi” processi del Terzo Millennio più invisibili che si siano mai visti nella storia di tutti gli innumerevoli “maxi” che sono andati in scena in questa Repubblica a trazione alternata, fin da quello, primo fra tutti, di Viterbo nei primi anni ‘50 per la strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947. A giorni si attende la sentenza di primo grado a Carminati & co. L’unico che parla, e di ragioni ne ha perché insieme al suo assistito è stata l’unica vera star del processone capitolino, è l’avvocato Bruno Giosuè Naso da sempre difensore dell’ex Nar e “partner” se non “parte” della Banda della Magliana negli anni d’oro delle Batterie capitoline. Naso che ogni imputato vorrebbe come difensore visto che nei decenni scorsi è riuscito a sfilare il suo assistito da sentenze pesanti per fatti enormi come l’omicidio di Mino Pecorelli e per il depistaggio della Strage della Stazione di Bologna. E anche nelle ultime battute non smentisce il suo stile di grande mattatore delle aule di giustizia e delle dichiarazione alla stampa (quando non tenta di intimidirla, come alla vigilia dell’inizio del processo, con una maxi querela a più di 90 cronisti rei di aver riportato brani delle ordinanze, pubbliche e quindi pubblicabili, emesse dall’autorità giudiziaria, Lui, il nero, il teorico del Mondo di mezzo che faceva su e giù dai bar del quartiere “bene” dell’Eur a quello ben diverso vicino a Ponte Marconi, il bar Fermi, dove incontrava gli uomini forti della Banda della Magliana Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci e poi ancora il pontiere fra Banda e Cosa nostra Ernesto Diotallevi, anche lui finito fra gli arrestati di Mafia Capitale e al quale sono stati sequestrati beni per milioni di euro, secondo Naso è stato perseguitato in nome del suo passato e non per i reati a lui contestati oggi.
Come si dice, il legale di Massimo Carminati, cerca di “buttarla in caciara” riscrivendo perfino la storia di quei bei processi – vinti – del passato: "Sfido tutti e cinque i procuratori della Repubblica che si sono applicati in questo procedimento a indicarmi qual è il processo nel quale Carminati viene definito il ‘piratà o il ‘cecato’. Questo dimostra che i processi si fanno con quello che scrivono i giornalisti. E poi è un problema di dignità, non porta una benda per apparire affascinante, porta una benda perché gli hanno sparato in faccia a bruciapelo. Non è vero che gli si sparò in macchina, scese con le braccia alzate e gli si sparò in faccia. Gli agenti della digos gli hanno sparato per ucciderlo perché Carminati doveva diventare da morto l’autore della strage di Bologna. Questa è la verità. E’ caduto nel trabocchetto teso da Cristiano Fioravanti che si era pentito. Se volete cercare rapporti equivoci con le istituzioni cercate in quella direzione". Chi non lo vorrebbe come difensore un avvocato così?

E prosegue l’avvocato a ridisegnare la storia di questa inchiesta con ardite ricostruzioni quasi etnico culturali che definire ardite non è un azzardo: "Se il procuratore Pignatone avesse indicato un sostituto romano non avrebbe fatto male. La romanità è una cosa tutta particolare. I colloqui nella pompa di benzina di Lacopo, voi non li potete capire perché non avete la capacità di capire, di rendervi conto delle fregnacce che si dicono tra loro. Solo voi potevate prendere sul serio ‘Mondo di mezzo’, un romano ce rideva sopra, avrebbe detto ‘questi sò cazzari’ – e poi prosegue nella sua ardita ricostruzione linguistica/rappresentativa – Solo la procura di Roma e il Ros potevano prendere sul serio le chiacchiere di quattro ‘fregnacciari’ che non sanno come impiegare il loro tempo e si beano dell’asserita esperienza di vita che Carminati propina loro grazie alla fama mediatica acquisita dopo ‘Romanzo Criminale’ scritto da un giudice che non avrebbe dovuto farlo perché lo aveva giudicato".

Sarà stato un po’ di cazzeggio al bar, ma Carminati non solo non è romano (è milanese), ma ha un curriculum e un carisma che va ben oltre a quello che racconta il suo legale.

Il broker
Da dove arrivano il carisma criminale e il potere intimidatorio di Carminati? Da lontano, dai Nuclei armati rivoluzionari, dai lavori su commissione e a volte in collaborazione con i Testaccini, la “batteria” egemone a Roma che di fatto guidò per più di un decennio il network criminale conosciuto come Banda della Magliana. Poi dall’amicizia e collaborazione con Ernesto Diotallevi, uomo della Banda strettamente legato a Pippo Calò (il suo primogenito venne portato a battesimo proprio dal membro della Cupola mafiosa). E poi quell’area oscura degli apparati deviati che ha segnato la nostra storia repubblicana. Carminati, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne. A partire dall’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Jaio” Iannucci, due militanti di sinistra uccisi a Milano nel 1978 con otto colpi di pistola che, secondo il pentito Angelo Izzo, non sarebbe riconducibile a una faida tra rossi e neri, ma "considerata la personalità di Carminati e i rapporti che deteneva con ambienti strani, l’omicidio del Casoretto sarebbe da addebitarsi a manovre di spezzoni deviati dei servizi segreti controllati all’epoca dalla P2". Dopo ventidue anni, nel 2000, il giudice Clementina Forleo ha decretato l’archiviazione del procedimento. Ma proprio nella richiesta di archiviazione emerge un dato che fa immaginare complicità inconfessabili. Le prove, che erano alla base dell’inchiesta, erano sparite o addirittura, ipotizza la Forleo, erano state distrutte fin dal 1979 da pubblici ufficiali di Milano e Roma.

E ancora Carminati che entra nelle inchieste sull’omicidio Pecorelli e sull’operazione di depistaggio sulla strage di Bologna del treno Taranto-Milano e poi viene assolto per il rotto della cuffia. Ma già da prima era "uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura" come lo ha descritto Valerio Fioravanti. Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva, racconta agli inquirenti all’inizio della sua collaborazione, come vi fosse "un rapporto stretto tra Alessandro Alibrandi, Massimo Carminati e Claudio Bracci e ricordo, in particolare, che quelli della Magliana davano indicazione dei luoghi e persone da rapinare. […] Ricordo infatti che Alibrandi e gli altri due avevano la funzione di recuperare i crediti di quelli della Magliana e di eliminare alcune persone poco gradite. Tali persone da eliminare gravitavano nell’ambiente delle scommesse clandestine di cavalli: in particolare il Carminati mi disse, presumibilmente intorno al febbraio ’81, di aver ucciso due persone: una di queste era stata “cementata”, mentre l’altra era stata uccisa in una sala corse".

Nel libro “Fausto e Jaio” Daniele Biacchessi afferma:

Il pentito Angelo Izzo quando parla di Carminati è credibile. I fatti che racconta nella sentenza ordinanza sul depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna sono stati tutti accertati in via definitiva. Carminati è il terminale tra i servizi segreti e i gruppi di destra. Con Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte del Sismi aveva un rapporto strettissimo. Angelo Izzo invia la lettera il 5 febbraio 1992, cioè prima che il pentito della Magliana, Maurizio Abbatino, iniziasse a collaborare. Il documento contiene, riguardo a Carminati, una serie di indicazioni investigative che poi sono state in larga parte, puntualmente riscontrate. Cosa diceva la lettera di Izzo inviata alla Digos? Carminati gode di grandissimo prestigio. Nel 1977 […] è già un personaggio con molti legami che vanno dall’ambiente di Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, a Franco Giuseppucci detto “il Negro”, a Danilo Abbruciati, a Flavio Carboni. Questo gli permette di tenere un rapporto di superiorità con i sorgenti terroristi neri, ai quali è in grado di fornire appoggi e aiuti di ogni genere.

Dopo il furto al caveu del Banco di Roma al palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio, una delle poche condanne definitive che ha scontato, Carminati libero acquisisce un credito che ben poche figure hanno mai avuto non solo a Roma ma a livello nazionale. E come potrebbe essere diversamente con quel curriculum?

Ripercorriamolo ancora.

Ex terrorista dei Nuclei armati rivoluzionari – i Nar che facevano capo ai più celebri Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, condannati per numerosi omicidi e per la strage della Stazione di Bologna del 2 agosto 1980 – prima del 1981 quando perse l’occhio (guadagnandosi il soprannome di “Cecato”) ma riuscì a salvarsi mentre tentava di varcare il confine svizzero. Mai condannato per terrorismo nero. Ex esattore dei cravattari romani e della Banda della Magliana. Quella Banda che considera composta da “straccioni” ma che segna la sua vita per sempre tanto quanto la militanza. Ex custode dell’arsenale “in comune” tra gli estremisti di destra e la Banda all’interno del Ministero della Sanità. Ex spericolato rapinatore di caveau dentro al Palazzo di Giustizia, interessato più alle carte dei magistrati che ai loro soldi. Indicato come freddo e feroce killer sia per le organizzazioni di appartenenza – Nar e Banda – sia a contratto, come si è ipotizzato nel caso dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, per il quale è stato assolto in Cassazione insieme a tutti gli altri imputati, Giulio Andreotti e Claudio Vitalone compresi. A proposito, oggi riaprire in qualche modo sia i processi sull’omicidio Pecorelli che su quello di Piersanti Mattarella sarebbe più che dovuto. Nonostante le sentenze. O forse, proprio per quelle sentenze. Perché come siano andati i processi, è evidente che quell’ambiente di confine fra terrorismo nero, mafia e criminalità organizzata e circuiti economici e apparati deviati dello Stato giocarono e tutti insieme di concerto il proprio ruolo.

È quindi Carminati il capo di Mafia Capitale? No. Sarebbe stato – e probabilmente lo è ancora – il broker, il mazziere, l’uomo d’ordine che indica come e chi e con quale ruolo può operare sulla Capitale. E in un ruolo del genere, come ha indicato la procura di Roma, si inserisce la teoria del Mondo di Mezzo che l’avvocato Naso definisce vanterie di cazzari al bar.

Immaginiamo a che livello potrebbe salire il suo prestigio per una lieve condanna se non venissero riconosciuti le aggravanti e i reati riconducibili all’ambito del 416 bis, l’articolo che definisce i reati inseribili nell’associazione di stampo mafioso, e possiamo capire quanto sia cruciale la sentenza che arriverà a giorni.

Di strage in strage, la mafia nera
Un mondo di sotto, uno di mezzo e quel mondo di sopra che non è un’area grigia di potere indistinto in cui alcuni soggetti fanno affari, si fanno corrompere o collaborano alla bisogna con le organizzazioni criminali. Non è un’area di interessi occasionali, ma una realtà di rapporti stabili e consolidati da decenni di relazioni e di sostanziale impunità. Basta andare a leggere cosa dichiarava Paolo Borsellino nel 1986 alla vigilia della prima udienza del maxiprocesso a Cosa nostra per capire quanti anni siano andati sprecati. A Roma e nel nostro Paese. Dichiarò Borsellino al cronista de "l’Unità" Saverio Lodato: "“Terzo livello” è forse un’espressione infelice. Ma sicuramente le connessioni, le frequentazioni, gli intrecci fra mafia e certo mondo politico e affaristico troveranno una migliore collocazione. In questi giorni i nostri colleghi romani hanno emesso mandati di cattura a carico di Giuseppe Calò, accusato di appartenere alla cupola mafiosa, per la strage di Natale [la strage del Rapido 904, nda]. Emergono da quelle indagini inquietanti contatti della mafia con il mondo finanziario, con quello dei grandi capitali".

Oggi, mentre cerchiamo di capire i confini del Mondo di Sopra, stiamo ancora cercando di dare un nome e un volto a gran parte dei protagonisti occulti di allora. Anzi anche di molto prima, quando ancora non era stata approvata la Costituzione e la Repubblica era nata da pochi mesi, quando andò in scena il primo maggio del 1947 la prima strage di Stato: Portella della Ginestra. Dove troviamo con l’incrociarsi di interessi e sincronia di azioni fra apparati dello Stato, mafia, imprenditori e massoneria coperta e, soprattutto, fascisti e neo fascisti, come ho approfonditamente raccontato e documentato nel mio ultimo libro “Il bandito della Guerra Fredda” (Imprimatur editore, marzo 2017). Non c’è episodio stragista o eversivo dove tutti questi soggetti non si attivino in piena sincronia. Non uno.

Mentre cerchiamo di capire ancora i confini del Mondo di Sopra e di quello di Mezzo di Carminati, stiamo ancora arrancando al buio nel tentativo di dare un nome e un volto a gran parte dei protagonisti occulti di allora.

È un dato di fatto che la nostra storia repubblicana sia segnata dalla relazione che vede mafie, eversione nera, pezzi di apparati dello Stato, politici e ambienti massoni e paramassonici agire anche in forma eclatante per condizionare la vita pubblica italiana. Se fino alla caduta del Muro di Berlino questa relazione poteva essere letta come parte delle strategie della Guerra Fredda in Europa, dopo l’89 questa presunzione giustificativa – che non potrà essere mai giustificata – decade. Un esercito di presunti disoccupati, di esuberi occulti, decaduta la discriminante ideologica, si è rimessa sul mercato e si è presa il Paese tutto a partire dalle due “capitali”, Milano e Roma. Checché ne dicano i vari revisionisti impegnati a riscrivere in chiave bonaria la storia dello stragismo politico e mafioso. Dal primo maggio 1947 (strage di Portella della Ginestra) alle immagini di Massimo Carminati arrestato su una strada di campagna alle porte di Roma, il numero di vittime provocate dal periodico riproporsi di rapporti fra soggetti formali e soggetti criminali per intimidire un’intera nazione, arricchirsi e garantirsi comune impunità, è impressionante.

Esiste un documento della Dia del ’93 in relazione alle stragi di quegli anni che molto fa intuire di quali fossero gli interessi e i poteri che si erano messi in moto dopo la strage di Capaci del maggio ’92. "Già subito dopo la strage di via D’Amelio la Dia aveva prospettato l’ipotesi che “cosa nostra” fosse divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme a un potere diverso e più articolato. Progetto inteso non già come programma definito nei particolari, bensì come disegno di massima da sviluppare nel tempo, valutando attentamente l’impatto di ciascun passaggio all’interno dell’organizzazione e sull’opinione pubblica". Il documento, all’epoca indicato come “riservato” e inviato dall’allora ministro degli Interni Nicola Mancino al presidente della commissione Antimafia Luciano Violante, dimostra quanta poca strada sia stata fatta per seguire la pista di quel “potere diverso e più articolato”. E mentre attendiamo di sapere se i giudici riterranno o meno Carminati un cazzaro da bar, continuiamo a vivere in una Repubblica macchiata fin dalla sua nascita da un colossale e sanguinoso inganno. Ripercorrendo sempre gli stessi schemi generazione dopo generazione come se fossimo incastrati in un soffocante e indistricabile loop.

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