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carminati massimo 3 colorLo scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza contro Emilio Gammuto
di Valentina Ersilia Matrascia
186 pagine per 5 anni e 4 mesi. Le motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Emilio Gammuto, uomo della scuderia Buzzi, depositata nei giorni scorsi traccia con chiarezza una linea di demarcazione nel quadro giudiziario, politico e sociale romano. C'è ufficialmente un prima e un dopo. Se già il percorso era cominciato con l'inizio di un processo che portava alla sbarra la mafia capitolina, ora con le prime sentenze è scritto nero su bianco: a Roma c'è la mafia.

«Può ritenersi accertata la presenza nella capitale di un’associazione che presenta caratteri e indicatori di mafiosità (segretezza del vincolo, struttura gerarchica, assoluto rispetto del vincolo gerarchico, metodo mafioso utilizzato per l’acquisizione del controllo delle imprese, di interi settori economici e di appalti pubblici, il diffuso clima di omertà che ne deriva) che ha in Carminati il suo vertice», scrive nelle motivazioni della sentenza, emessa lo scorso 3 novembre, la giudice Anna Criscuolo attribuendo - unico caso, finora - all'imputato Gammuto l'aggravante del metodo mafioso.

Mafie silenti che, secondo la sentenza, insistono ed esistono da tempo sul territorio e che poco hanno a che fare nei modi con la mafia storica. «Occorre - si legge infatti - sganciarsi dalla visione tradizionale della mafia storica, quella “che fa i morti”, spara e insanguina le strade per incutere timore e garantirsi omertà al fine di acquisire predominio territoriale o incontrastata posizione dominante in attività illecite o in interi settori dell’economia o nel settore degli appalti pubblici». Il maxi-processo che dallo scorso novembre si sta celebrando nell'aula bunker del carcere di Rebibbia comincia a delineare e a mettere nero su bianco la desolazione del Mondo di mezzo e di quella realtà criminale che, con personaggi del calibro criminale di Massimo Carminati ed «essendo la risultante di organizzazioni passate dall’eversione nera alla contiguità con la banda della Magliana, della quale ha mutuato la struttura compartimentata e le strutture organizzative», per anni sotto gli occhi di tutti ha esteso le sue radici in tutti i campi economici, politici e sociali dell'amministrazione della capitale trovando proprio nella politica terreno fertile per la sua crescita. «In una realtà estesa, complessa, fluida e magmatica come quella romana, - infatti - terra di conquista e di affari per le associazioni mafiose classiche, un’associazione criminale autoctona, radicata da tempo, che ha vissuto le stagioni più cruente e buie della storia romana, ha acquisito un patrimonio di informazioni, relazioni e protezioni che ne costituiscono il vero potere e la forza di intimidazione».

Aggravante, quella comminata a Gammuto, che trova giustificazione nelle modalità di azione messe in opera dagli imputati e dall'intera organizzazione. Non di semplice corruzione si tratta, infatti. In questo contesto, «la corruzione è forma evoluta del metodo mafioso, che ad essa strategicamente ricorre per permeare la pubblica amministrazione, evitando di compiere azioni violente, di esporsi e rischiare di attirare l’attenzione investigativa» attraverso avvertimenti e messaggi tipicamente mafiosi, come emerge chiaramente dalle intercettazioni agli atti.

Oltre alla condanna detentiva, con l'accusa di corruzione, per Gammuto anche quella a risarcire in separata sede le parti civili (Comune di Roma, Regione Lazio, associazione Libera, Sos Impresa, Cittadinanzattiva e associazione Antimafia Caponnetto). Insieme ad altri avrebbe corrotto un funzionario del Comune di Roma, responsabile del servizio Programmazione e Gestione Verde Pubblico. Nella stessa sentenza, di primo grado, condannati anche Raffaele Bracci, Fabio Gaudenzi, Emanuela Salvatori, ex funzionaria del Comune e responsabile dell'attuazione del Piano Nomadi di Castel Romano.

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