Se lo chiedete a un qualsiasi siciliano, la splendida isola delle eterne opere incompiute è il centro del mondo. Sospesa tra il bene e il male, da sempre quel triangolo in mezzo al Mediterraneo vagheggia una sua centralità storica, geopolitica, religiosa e sociale: come se tutto ciò che accade nel resto del mondo possa dipendere dalla Sicilia. È il sentire comune del siciliano medio che ha creato questa visione omnicomprensiva e totalizzante. Dalle dominazioni in serie che ne hanno forgiato il popolo e il carattere è spuntata fuori questa visione un po’ arrogante e un po’ sbruffona dell’identità siciliana. Quel sentirsi al centro del mondo ha anche , in parte, generato i fantasmi della mafiosità e la sua arroganza, oggi un po’ scalfita per fortuna dai successi della magistratura. Eppure, da un certo punto di vista, la Sicilia è veramente il centro del mondo. La Sicilia sicuramente è la più strategica delle isole mediterranee, una terra che - mutuando un termine molto in voga in piena guerra fredda - è sempre stata un po’ a “sovranità limitata”: primi fra tutti, gli interessi americani, basti pensare alla base di Sigonella, al MUOS o alle varie strutture, più o meno coperte, che orbitano nella galassia NATO. Oggi, con turchi e russi installati in Libia, ancora più strategica dal punto di vista geopolitico. In questo scenario, dunque, non sembrerebbe una forzatura affermare che, a partire dalla seconda guerra mondiale in poi, i governi italiani hanno sempre “affidato” la gestione strategica dell’isola a Washington che a sua volta continua a concepirla come un hub del proprio apparato di intellingence.
L’ombra degli interessi statunitensi si allunga sino alla stagione ’92 /’93: il 27 luglio del ’92 il console Peter Semler, da Milano, scrive alla Segreteria di Stato che “il 24 luglio ho incontrato Di Pietro, il quale mi ha confermato che tre giorni prima dell’uccisione di Borsellino, le forze dell’ordine hanno ricevuto, da fonti molto attendibili, la notizia che un attentato alla sua vita e a quella dello stesso Borsellino sarebbe avvenuto nel periodo compreso tra il 16 e il 26 luglio”. L’ex magistrato, secondo il documento, aveva detto di avere “inavvertitamente toccato gli interessi della mafia con le sue indagini sulla corruzione”, riferendosi “all’arresto di un politico di piccolo calibro al quale adesso egli attribuisce un ruolo importante nel riciclaggio dei profitti mafiosi al Nord”.
E ancora: nelle motivazioni della sentenza del processo “Capaci bis”, quello nato dopo la confessione di Gaspare Spatuzza, abbiamo altre tracce di questa presenza ingombrante: una sentenza la cui lettura analitica porta a ritenere che è stato possibile, o almeno probabile, che insieme agli uomini di Cosa nostra abbiano partecipato alla strage, nel momento del mandato stragista, organizzazione ed esecuzione, anche altri uomini estranei alla mafia, probabilmente appartenenti a strutture di intelligence straniere. Il quadro che si viene a formare, dunque, seppur “abbozzato”, è un quadro che conferisce maggiore forza alla tesi secondo cui ambienti esterni a Cosa nostra si possano essere trovati, in un determinato periodo storico, in una situazione di convergenza di interessi con l’organizzazione mafiosa, condividendone i progetti e incoraggiandone le azioni.
Ma allora quale migliore chiusura di questa riflessione se non le parole che Salvatore Giuliano, bandito, ebbe a scrivere all’allora Presidente degli Stati Uniti, nel 1947: “Caro presidente Truman, vogliate accettare l’umile appello di un giovane che è molto lontano dall’America. Per tradurre in realtà il mio ideale mi unii ai membri del Movimento per l’Indipendenza siciliana. Il nostro sogno era di staccare la Sicilia dall'Italia e poi annetterla agli Stati Uniti”. Un pensiero, evidentemente, che riverbera ancora oggi.

La Sicilia: un hub a stelle e strisce
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- Alberto Castiglione