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Il direttore della Centrale Anticrimine della polizia di Stato commenta l’indagine della Dda di Bologna

È iniziato tutto nel 2021 con l'arresto, da parte della polizia, di un dominicano in zona Barca, a Bologna. Aveva con sé 150 grammi di cocaina. Da quel momento è stata avviata un'indagine dalla Dda bolognese - coordinata dal procuratore capo Giuseppe Amato e dal pm Roberto Ceroni - che ha portato a 21 misure cautelari, emesse dalla gip Nadia Buttelli, nei confronti di altrettante persone, 20 delle quali sono state trasferite in carcere, mentre una ai domiciliari. Vengono contestati, a vario titolo, i reati di associazione finalizzata allo spaccio internazionale di sostanze stupefacenti e riciclaggio. Nel febbraio del 2022 erano già state eseguite cinque misure cautelari e quindi, con gli arresti comunicati oggi, viene estesa l'attività: l'indagine, tuttavia, resta ancora aperta. La maggior parte dei membri è di nazionalità dominicana, ma sono stati arrestati anche sei italiani, un albanese e alle attività spaccio e importazione hanno partecipato anche quattro donne. All'indagine - condotta con attività sotto copertura alle intercettazioni - hanno partecipato, oltre alla squadra mobile di Bologna, anche le squadre mobili di Vicenza, Savona, Pisa, la direzione centrale anticrimine e il Servizio centrale operativo (Sco) della polizia. Sono stati sequestrati dallo scorso febbraio circa 750 chili di cocaina e la somma contante di 350mila euro. Grazie all'arresto avvenuto alla Barca, gli agenti sono riusciti a risalire ai capi dell'associazione - due dominicani che risiedevano nel Bolognese, ritenuta la sede logistica delle attività - e di scoprire la rotta atlantica della cocaina che da Santo Domingo veniva trasportata in Italia in container, all'interno dei quali si trovava pellame grezzo di bovino dove veniva nascosta la cocaina in involucri da circa 500 grammi l'uno. Il porto di Vado Ligure, in provincia di Savona, era il luogo dove arrivavano i container, ma la sostanza veniva poi spacciata in tutta Italia anche grazie all'aiuto di un imprenditore toscano (anche lui finito in carcere) che aveva una società di commercio di pelle e che permetteva quindi di trasportare la cocaina. "Avevano una grande facilità di approvvigionamento che deriva dal fatto che andavano dove ci sono le piantagioni - ha spiegato il prefetto Francesco Messina, direttore della Centrale Anticrimine della polizia di Stato -. Abbiamo a che fare con la foto plastica di quella che è la situazione in questo ambito. C'è una tendenza a gestire direttamente in modo organizzato le piazze di spaccio, che producono provviste di denaro enormi, che entra poi in circuiti di riciclaggio internazionale che partono dalla raccolta di soldi in contanti per immetterla in un circuito di pulizia che porta a investire in attività economiche illecite". Per alcuni fatti c'è già stata una condanna in primo grado. 

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