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Di cosa avrebbe voluto parlare con il suo ex direttore? E dov'è finito il materiale da lui raccolto?

Trentasette anni fa, il 23 settembre 1985, a Napoli era stato ucciso da due sicari della camorra il cronista del 'Mattino' Giancarlo Siani. Aveva venticinque anni, la stessa giovane età dei giornalisti Cosimo Cristina, ucciso a Termini Imerese nel 1960, e Giovanni Spampinato, ucciso a Ragusa il 27 ottobre del 1972. Siani era un giornalista pubblicista che aspettava di essere assunto regolarmente dal suo giornale, dopo anni di lavoro precario, durante i quali aveva pubblicato in esclusiva importanti notizie sull'evoluzione di alcuni clan camorristici verso il modello mafioso e i legami con Cosa nostra, in particolare quelli dei Nuvoletta e Bardellino.

Una “penna” da fermare
Giancarlo Siani
era un ragazzo che aveva deciso di fare il giornalista per raccontare ciò che accadeva nella sua terra. Un ragazzo con una forte passione per la scrittura e per le inchieste, con il sogno di ottenere, da un giorno all’altro, un contratto e un lavoro stabile. Un giornalista pronto a mettere a rischio la propria vita per lottare contro un sistema di violenza e morte. Siani era un “giornalista-giornalista” che ricercava le notizie scomode e si contrapponeva al classico modello di giornalista-impegnato. Scriveva senza condizionamenti la realtà di una Napoli contaminata dalla Camorra e dalla corruzione politica, in particolare a Torre Annunziata. “Una città con circa 60.000 abitanti, un apparato produttivo in crisi, oltre 500 cassintegrati e la più alta percentuale di iscritti al collocamento - scriveva lui stesso in un articolo per la rivista “Osservatorio sulla camorra” - Un ottimo terreno per reclutare disoccupati e trasformarli in killer”.

Sono gli anni della guerra di Camorra dove a confrontarsi erano i due schieramenti: la nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e le famiglie emergenti dei Nuvoletta, Alfieri e Bardellino, affiliate a Cosa nostra. Quest’ultima aveva avuto la meglio sulla NCO, grazie alla preziosa alleanza del boss di Torre Annunziata, Valentino Gionta, camorrista in ascesa con fortissimi legami nel mondo della politica e dell’imprenditoria. In un articolo sul business del mercato ittico, Siani descriveva così le infiltrazioni criminali: “Tra i soci delle due cooperative che lavorano al mercato del pesce, spicca un nome inquietante: Gemma Donnarumma, moglie di Valentino Gionta. È questo il modo pulito per intascare il ricavato delle attività del mercato”. E ancora: “Con il sistema delle cooperative, Gionta aveva dato via a altre imprese di camorra. Inevitabile l’infiltrazione nel sistema degli appalti”.

Siani aveva ben chiaro che la Camorra e i politici camminano a braccetto. Ed era stato proprio un articolo a condannarlo a morte. Il 10 giugno 1985, infatti, “Il Mattino” aveva pubblicato la cronaca di Siani dell’arresto di Valentino Gionta. “Potrebbe cambiare la geografia della Camorra dopo l’arresto del superlatitante Valentino Gionta. Già da tempo, negli ambineti della mala organizzata e nello stesso clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse 'scaricato', ucciso o arrestato. - aveva scritto Siani - Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di 'Nuova famiglia', i Bardellino”.

E’ così che i Nuvoletta avevano deciso la morte di Giancarlo, l’unico modo per cancellare l’onta di quella “offesa”. Anche se un altro pentito, Gabriele Donnarumma, aveva poi riferito che dietro la decisione dei Nuvoletta, di uccidere Siani, vi era stato addirittura l’ordine diretto dello “zio”, ovvero Totò Riina. “Lo “zio”- aveva detto Donnarumma - dalla Sicilia non accettava che, nei confronti di mafiosi - tali eravamo noi ed i Nuvoletta - si dicessero cose del genere e perciò dovevamo uccidere il giornalista”.

Verità per Giancarlo
Dopo otto anni dall’omicidio, nel 1993, era arrivata la svolta nelle indagini. Grazie alla collaborazione di Salvatore Migliorino, il magistrato della Dda di Napoli, Armando D’Alterio aveva riaperto le indagini. Per l’omicidio sono condannati i mandanti (Lorenzo e Angelo Nuvoletta e Luigi Braccanti) e gli esecutori (Ciro Cappuccio e Armando Del Core). Mente la posizione dell’ex sindaco di Torre Annunziata, Domenico Bertone, era stata archiviata. Il boss Gionta era stato prima condannato e poi assolto in vari processi fino all’assoluzione definitiva della Cassazione nel 2003.

Tuttavia, quella verità processuale, alla quale si è giunti con difficoltà, non ha del tutto cancellato la convinzione che dietro quell'omicidio ci fosse anche altro. Lo stesso pm Armando D’Alterio, il sostituto alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli che aveva riaperto le indagini sul caso, aveva dichiarato in passato che “quell’articolo fu solo la causa scatenante dell’omicidio”. E sono molteplici le domande che restano aperte a trentasette anni di distanza dal delitto. Di cosa avrebbe voluto parlare con il suo ex direttore de l’“Osservatorio sulla camorra”, Amato Lamberti, a cui telefonicamente aveva chiesto un incontro per parlare di cose che “al telefono è meglio non dire”? Elementi che portano a domandarsi: che cosa aveva scoperto Siani? Perché era preoccupato? E dove è finito il materiale da lui raccolto? Una questione che sembra ricordare quanto accaduto anche in altri misteri italiani, come la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino o il trafugamento di documenti dalla cassaforte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

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