Si è tenuto oggi 25 marzo, ad Azzano decimo, l’evento “Mafia e Nord Est, un pericolo da affrontare. Sono intervenuti Michele Penta, presidente dell’osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia Giulia; Luana de Francisco giornalista al Messaggero Veneto, co-autrice dei libri “mafia e nord est” e “crimini a Nord-Est”; come moderatore, Davide Tassan Zorat, presidente dell’associazione culturale “La mafia non è solo al sud” con sede ad Aviano.
Ha aperto il dibattito Michele Penta che ha descritto il lavoro dell’osservatorio regionale della mafia in Friuli: “L’osservatorio regionale antimafia è nato con la legge regionale del novembre 2017 in Friuli Venezia Giulia perché era necessario che la regione si dotasse della capacità di analizzare il fenomeno mafioso in una regione dove la mafia si era ormai consolidata”.
La criminalità organizzata da diversi decenni non è più solo un fenomeno che riguarda esclusivamente il sud Italia; già nel 1989 Paolo Borsellino ad Udine lanciava l'allarme denunciando la presenza della mafia, della camorra e della ‘Ndrangheta in Friuli Venezia Giulia attraverso il coinvolgimento di personaggi locali insospettabili.
“Questa terra già negli anni 50’ 60’ era oggetto di attenzione per quanto riguarda il confino di appartenenti alle cosche siciliane... I vari personaggi mandati al confino hanno attivato affiliati in questa zona legati alle varie cosche. Hanno creato famiglie e hanno iniziato a fare affari nel movimento terra e nell’edilizia. Ci sono state delle situazioni di acclarata indagine giudiziaria che hanno portato e sequestri di beni a famiglie di costruttori che si erano radicati che avevano legami con le varie cosche mafiose”, ha precisato Penta.
La mafia aveva bisogno di investire i proventi delle attività illecite e dunque anche per questo dagli anni 60’ si è avuta un’infiltrazione fino alle regioni del nord, che ha portato denaro da investire, offrendo servizi in tutti i settori a condizioni concorrenziali.
Entrando nel dettaglio sui settori di interesse delle criminalità organizzate nella regione, Penta ha specificato come ci siano alcuni ambiti in cui esse non operano più: “Lo sfruttamento della prostituzione, ad esempio, lo hanno affidato alla mafia nigeriana o lo hanno dato in subappalto a mafie transfrontaliere".
“Quando si parla di criminalità organizzata di stampo mafioso. Tra le varie mafie esistono dei settori comuni: il riciclaggio, l’usura l’estorsione sono tutte situazioni comuni a tutte le cosche”, ha ricordato Penta, precisando come spesso riescano ad investire denaro nel circuito legale avvicinandosi alle aziende quando queste sono in crisi.
“Sanno sempre quando le imprese stanno per andare in rosso. Si presentano per offrire denaro che l’imprenditore non può più acquisire nei canali legali delle banche. Offrono interessi minori di quelli delle banche, poi vanno a tasso immediato e prendono l’azienda, o mettono un prestanome e a quel punto l’azienda è persa. Inseriscono un contesto illecito in un’azienda nel settore della legalità”.
Penta ha poi posto l’accento sull’importanza della legge sul sequestro e la confisca dei beni ai mafiosi: “Al mafioso non frega nulla di andare in galera, perché riesce dal carcere a gestire i suoi traffici ugualmente; i familiari che restano fuori sono tutelati dall’organizzazione. Gli anni di carcere per il mafioso non gli crea lo stesso problema che gli crea la conquista del patrimonio. Il patrimonio è il potere. Quello che conta per il mafioso è il consenso è la base su cui si manifesta la mafia.”
Solo nella provincia di Pordenone sono 63 i beni confiscati alle mafie. La giornalista Luana de Francisco, che da oltre un decennio si occupa di cronaca giudiziaria, con particolare riferimento ai fenomeni del nord est, ha ricordato il caso Vincenzo Galatolo, l’ex reggente della famiglia dell'Acquasanta nel mandamento di Resuttana, condannato per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Aveva scelto il piccolo comune di Tavagnacco, nell'hinterland udinese, per trapiantarvi famiglia e aziende, con particolare attenzione ai settori delle costruzioni e del mercato immobiliare, nel quale aveva trovato terreno fertile per insediare parte delle società della sua holding criminale.
Anche il figlio Vito Galatolo, raccogliendo il testimone del padre si era ben radicano nel nord-est del nostro paese. Ma era in procinto anche di raccogliere l’eredità dei delitti eccellenti: 8 anni fa aveva confessato l’esistenza di un piano di Cosa nostra per uccidere il consigliere togato Nino Di Matteo, su ordine del super boss latitante Matteo Messina Denaro e "apparati dello Stato" deviato.
“Lui si sposta a Mestre. Diventa un sorvegliato speciale, trova lavoro velocemente al tronchetto. Ma Vito Galatolo non convince gli inquirenti, i carabinieri sono convinti che sia lui il capo dell’organizzazione giù a Palermo. Il suo stile di vita sembra impeccabile fin quando ad un certo punto gli investigatori si accorgono che i Galatolo mangiano sempre pesce freschissimo che la famiglia si faceva mandare dalla Sicilia. I carabinieri trovano dentro il pesce la contabilità del pizzo e degli affari con i quali Vito Galatolo continuava a gestire lo storico clan palermitano dell'Acquasanta. Nel momento in cui l’hanno chiuso in carcere ha passato le consegne a Vincenzo Graziano, boss che aveva trasferito i suoi interessi a Udine”, ha spiegato la giornalista.
Si sono poi approfondite le indagini che hanno portato ad indentificare gli Emanuello, costellazione gelese di Cosa Nostra, attivi nell’esecuzione di opere edili nel Comune di Aviano. Gli Emanuello, riuscivano a gestire affari ovunque: “Le intercettazioni degli inquirenti nisseni portano fino al Friuli. Gli inquirenti parlarono di un verminaio da Gela fino a Pordenone con imprese edili intestate a prestanomi, anche analfabeti”, ha ricordato la de Francisco, che ha precisato come questa ramificazione criminale sia riuscita addirittura ad accaparrarsi appalti dalla Nato nella base di Aviano.
Foto © Our Voice
Mafia e Nord est, un pericolo da affrontare
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- Francesco Ciotti