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Pubblicate le motivazioni del Gup di Bari a condanna della moglie del boss

"Il giornalista costituisce una minaccia seria per le associazioni mafiose, in quanto con il proprio lavoro è in grado di provocare un grave vulnus al muro di omertà che protegge, in una coltre di silenzio, le vicende criminali del clan". 
E' quanto si legge nelle motivazioni con le quali il gup del Tribunale di Bari, Giovanni Anglana, il 15 aprile scorso, ha condannato la 44enne barese Monica Laera, moglie del boss del clan Strisciuglio di Bari Lorenzo Caldarola, e lei stessa condannata per associazione mafiosa, alla pena di 1 anno e 4 mesi di reclusione per i reati di lesioni con l'aggravante mafiosa e minacce gravi ai danni della giornalista del Tg1 Maria Grazia Mazzola
L'episodio risale al 9 febbraio 2018. Dopo aver minacciato la cronista che faceva domande sul marito detenuto e sul figlio dell'imputata, nell'ambito di una video-inchiesta sull'incidenza della criminalità organizzata sui ragazzi, Laera la colpì con un pugno al volto, davanti all'uscio di casa, nel quartiere Libertà di Bari. 

"Il fatto di imputare ai giornalisti la rovina di padre e figlio, costituisce espressione di una radicata convinzione negli ambienti contigui alla criminalità organizzata, permeati da chiusura totale ed omertà assoluta verso l'esterno, secondo cui la diffusione di notizie che li riguardano è dannosa - spiega il giudice - , perché le associazioni mafiose proliferano e si rafforzano in contesti nei quali, forti della loro fama criminale e correlata capacità di intimidazione, possono operare indisturbate, protette dal silenzio e dall'omertà, essenziali a garantire l'assoggettamento della popolazione che vive nei territori controllati dai clan". 
Il gup ritiene comunque che quel "rabbioso intervento" dell'imputata nei confronti della cronista potrebbe essere stato "verosimilmente acuito dal dolore che la donna provava" per un recente lutto familiare (al momento dell'aggressione in casa della moglie del boss era in corso una veglia funebre) ed evidenzia, nella sentenza, che poi la donna "ha chiesto pubblicamente scusa". Queste due considerazioni le sono valse le attenuanti generiche, equivalenti alla recidiva contestata, ma non alla riconosciuta aggravante mafiosa.

"In sentenza e agli atti del Giudice c'è il valore del mio lavoro - ha commentato sui social la stessa Mazzola - Lo scrive il Giudice, avevo ragione: il Giudice parla di omertà e silenzi, chi doveva pubblicare sul clan, tacque. Laera, nell'aggredirmi, si è avvalsa del metodo mafioso legato all'appartenenza al clan Strisciuglio. Con minacce di morte e aggressione fisica. É in sentenza. Laera ritenne un affronto, scrive il Giudice, che io senza timore andai a porre domande sul clan nel quartiere Libertà, in un contesto palesemente omertoso. La boss, scrive il Giudice, mi aggredì nonostante io mi stavo allontanando, per esercitare platealmente il suo potere mafioso e intimidatorio. Le domande scomode sul figlio della boss Ivan Caldarola, portavano a conoscenza del pubblico, il reato increscioso di violenza sessuale di cui si era macchiato il giovanissimo, rampollo in ascesa al comando del clan". 

Quindi la Mazzola denuncia: "Fui pluriminacciata non solo dalla Laera ma anche dalla consuocera Angela Ladisa, moglie di un altro boss, con volgarità e pesante violenza verbale. 'Ti ho fatto la fotografia!' minacciò Angela Ladisa (moglie del boss Mercante) che in gergo mafioso vuol dire, te la farò pagare. Che marciume, che disgusto. 
Una boss Laera ancora libera e io ho una mandibola rotta e un trauma cervicale". E poi ancora: "Cenere sul capo di chi l'omertà invece nel quartiere Libertà l'ha alimentata anche non pubblicando mai che la boss Laera è mafiosa con sentenza in Cassazione dal 2006. 
Cenere sul capo di chi tentò di manipolare i fatti, di chi tentò di isolarmi e di penalizzarmi professionalmente".

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