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L’anniversario: 33 anni fa Cosa nostra uccise il giornalista Mauro Rostagno. Le sue inchieste su quello scenario criminale che oggi non è scomparso. Obbligatorio “recuperare” quell’impegno

Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Giulio Francese ce lo ricorda oggi, in occasione del 33° anniversario del delitto mafioso di Mauro Rostagno. Ci ricorda quello che Rostagno faceva a Trapani, da direttore, di fatto, della tv privata Rtc. Con “la testa e con il cuore” voleva fare aprire gli occhi, ai siciliani, dice Francese, ai trapanesi in particolare aggiungiamo noi senza nulla togliere al “peso” delle parole del presidente dei giornalisti di Sicilia, su qual’era il vero volto della mafia. Ecco in una giornata dove tanti apriranno bocca, sosteniamo che il ricordo senza l’azione è cosa inutile. Oggi non dobbiamo solo ricordare Rostagno, ma chiederci cosa ognuno di noi, giornalisti, abbiamo fatto nei rispettivi anni di lavoro, per mantenere vivo il giornalismo d’inchiesta che a Rostagno piaceva tanto, perché era l’unico modo per attirare attenzione. Cosa facciamo ancora ogni giorno? Lo ha ricordato Maddalena Rostagno quando testimoniò nel processo di primo grado dinanzi alla Corte di Assise di Trapani: Rostagno era arrivato a Trapani per occuparsi di una comunità di recupero di tossicodipendenti, la Saman. Laureato in Sociologia, era diventato un bravo terapeuta di quei ragazzi (alcuni li portò a lavorare a Rtc, tra le diffidenze di tanti, gli stessi che oggi esaltano quell’esperienza), e Maddalena Rostagno dinanzi ai giudici ricordò come suo padre Mauro dagli schermi televisivi aveva deciso di fare il “terapeuta” della città di Trapani. Presto si era accorto che la città era drogata, trapanesi convinti di vivere nel benessere, intendendo per benessere la possibilità di avere facili assunzioni per i loro figli o anche ricevere a casa, senza uscirne, un semplice certificato, o ancora una pensione per tirare a campare. Risalendo la scala poi c’erano le imprese e gli imprenditori che si sceglievano gli appalti da fare senza attendere tanto l’esito delle gare, o le imprese che ristrutturavano vecchi palazzi e li rivendevano agli anti pubblici senza tante difficoltà.

C’era la Trapani bene che frequentava salotti senza badare alla “puzza” di certi mafiosi che frequentavano le stesse stanze. E poi la massoneria che si presentava come centri culturali, dove le frequentazioni erano pure importanti, per le presenze anche di giudici e magistrati, gli stessi che magari dovevano processare certi personaggi, che puntualmente uscivano assolti…quando i processi si riuscivano a celebrare. Rostagno raccontava che quello non era benessere, ma assoggettamento, schiavitù. Trapani, quella raccontata da Rostagno, ma ancora quella di oggi, non è mai stata la città delle coppole e delle lupare, ma quella comandata dai borghesi. E si perché per gestire tanto denaro nelle banche ne capivano molto di più quelli che oggi chiamiamo “colletti bianchi” e non i “viddani” armati. E così quando nel 1986 Rostagno cominciò ad occuparsi a Rtc della sua antica passione, il giornalismo, era stato negli anni ’70 direttore del giornale di Lotta Continua, trovò a Trapani ben radicata questa mafia. Mafia a Trapani che “non è mai stata sola”, a parte il consenso, o il voltarsi dall’altra parte, era, ed è, un poliedro di pezzi, immagini, superfici, dove ognuno ha un ruolo che si somma a quello degli altri. E’ il poliedro che armò la mano del killer la sera del 26 settembre del 1988 a Lenzi, campagne di Valderice.

Sono dovuti passare alcuni anni da quel 1988 per sentire un magistrato, il pm Luca Pistorelli (lo abbiamo da poco rivisto a Trapani per l’insediamento del nuovo procuratore Gabriele Paci, che in quegli anni ’90 fu con Pistorelli uno di quei giudici venuti a cancellare le vergogne della magistratura trapanese, e che oggi possiede un bagaglio di conoscenze sulle schifezze nascoste nel trapanese, sulle connivenze che determinarono la morte di Ciaccio Montalto, pm, nel 1983, o la strage di Pizzolungo nel 1985), alzare il velo sulla città segreta, a Trapani, ricordò durante un convegno, c’è la mafia, la massoneria, ci sono i servizi segreti, c’è Gladio, la struttura segreta creata per difendere negli anni della guerra fredda l’Italia dai comunisti e che poi divenne qualcos’altro. Appunto, qui la mafia non era sola, e non lo è nemmeno oggi. La politica qui incontra i boss, li chiama pubblicamente don, i giudici ci dicono che non è reato, ma la cosa dovrebbe fare indignare, ma non avviene. Forse perché al contrario di Rostagno, che avrebbe spinto per l’indignazione, qui adesso i giornalisti magari scrivono così da indirizzare l’indignazione verso chi nelle indagini aveva stigmatizzato codice penale alla mano quei comportamenti. Ecco, non stiamo facendo ciò che Rostagno ci ha lasciato in eredità. Oggi c’è chi ricorda quasi con la lacrimuccia l’omicidio di Mauro Rostagno, ma in tutti gli altri giorni fa proprio tutto il contrario, la massoneria resta un verminaio, ma poi scopri che certi scribacchini in un battibaleno hanno messo grembiule e cappuccio (ma pare che il cappuccio non lo usino nemmeno più). La mafia qui è sempre la stessa, non è mai sola.

La verità, quella dal nostro punto di vista, è quella che il modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e l’informazione, proprio di rostagno, come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, profuso anzitutto nel contrasto al fenomeno mafioso, oggi è cosa rara, ma non impossibile da rilanciare. Ci vuole coraggio e quel cuore e quella mente come li aveva Rostagno, ci vuole passione. Bisogna tornare ad usare la voce, e lo scritto, per ridiventare tarli contro le trame collusive delle cosche mafiose, che sono convinte di essere invincibili, fenomeni non umani, così da smentire Falcone che diceva che la mafia come tutti i fenomeni umani un giorno dovrà pur morire. Oggi si definiscono “esemplari” le assoluzioni, Rostagno definì nel corso della sua attività giornalistica “esemplari” invece certe condanne, come quelle inflitte al boss mafioso Mariano Agate. La mafia è una montagna di merda, ci ha lasciato detto Peppino Impastato, e Agate era un pezzo di quella montagna, ma non ditelo ai familiari che si offendono e che per aver ragione del tutto su chi glielo ha ricordato cosa fosse, oggi “pignorano” lo stipendio di chi lo ha scritto. Pignorare la penna di chi si tenta di privare di sostentamento non sarà mai possibile e siamo certi che Rostagno sarebbe stato contento di chi resiste alle “intimidazioni”, che ai suoi tempi erano fatte con il piombo, oggi con le carte bollate. Rostagno è stato ucciso per aver messo insieme i cocci di una conoscenza sulla mafia trapanese, sulla sua intimità con apparati del potere economico e politico.

“Ricordare Rostagno - dice il presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Giulio Francese - significa ricordare un uomo che, nelle sue tante vite, ha fatto sempre scelte coraggiose, dando tutto se stesso. Ha scelto di essere siciliano e di lottare per una Sicilia migliore, ha scelto di essere giornalista dimostrando che si può fare grande giornalismo anche da una piccola tv locale: questione di testa ma anche di cuore. È questa la lezione che ci lascia, è quella “purezza” dell’uomo vestito di bianco che noi ricordiamo, la forza delle sue parole, della sua ironia, la determinazione con cui raccontava il vero volto della mafia ai siciliani per fargli aprire gli occhi. Potevano zittirlo solo in un modo, col piombo. Ma noi non dimentichiamo. E prendendo in prestito le parole del pm nel processo di primo grado, diciamo che di “Mauro resta lo splendore della sua figura umana e intellettuale”. E resta attuale la sua lezione di giornalismo che sarebbe importante riuscire a recuperare”. Recuperare quindi la parola d’ordine.

Tratti da: articolo21.org

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