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I due assistenti capo dell'istituto penitenziario bruzio Luigi Frassanito e Giovanni Porco - arrestati nel corso dell’operazione condotta il 19 giugno 2019 dai Carabinieri del comando provinciale di Cosenza, coordinati dalla Dda di Catanzaro - sono accusati di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito i clan Lanzino-Ruà-Patitucci, Bruni-Zingari e Rango-Zingari all'interno del carcere di Cosenza. Durante il processo in corso al Tribunale di Cosenza, i due - tramite i rispettivi legali Cristian Cristiano e Filippo Cinnante - hanno sempre negato tutte le accuse sulle presunte attività a favore dei boss della mala cosentina realizzate tra il 2009 e il 2015. Entrambi si sono dichiarati estranei ai fatti e disponibili ad un confronto con i pentiti dei gruppi di ’Ndrangheta cosentini che li hanno tirati in ballo nelle loro dichiarazioni.

Il racconto dei pentiti
Del presunto sostegno delle guardie infedeli ha parlato Daniele Lamanna - oggi collaboratore di giustizia - ma una volta soggetto attivo della “Confederazione” della quale farebbero parte la famiglia Bruni, il clan degli “Zingari” e quello degli “Italiani”. Il pentito, rispondendo alle domande del pm, ha affermato di aver goduto del sostegno di Frassanito: "Portava le ‘mbasciate dall’interno del carcere, mi occupavo io stesso di riempire i pizzini di scotch in modo da nasconderne il contenuto" ha detto il pentito, aggiungendo che avrebbe ricevuto in “dono” per il suo compleanno (trascorso in cella) "una bottiglia di vodka". Luigi Frassanito, secondo il racconto di Lamanna, lo avrebbe accontentato riuscendo a versare il "contenuto del superalcolico in una bottiglia di plastica originariamente contenente dell’acqua".
Oltre a Daniele Lamanna ci sono stati altri collaboratori che hanno raccontato una lunga serie di attività che i due agenti avrebbero realizzato all’interno della struttura penitenziaria in modo che i periodi di detenzione dei boss si trasformassero in un piacevole soggiorno. Ci sarebbe anche la presenza di presunti pizzini che dalle celle avrebbero raggiunto i membri del clan all'esterno, i quali erano pronti in attesa di ordini per l’organizzazione dei business illeciti. E poi ancora. Sempre secondo quanto raccontato da alcuni pentiti, i detenuti oltre a continuare a impartire ordini dall'interno del carcere avrebbero potuto diverse volte - tramite i due agenti - sistemarsi autonomamente all’interno delle celle di sicurezza dove organizzavano riunioni e ottenevano oggettistica vietata dall’ordinamento giudiziario.
Un altro collaboratore ad aver parlato è Francesco Noblea, rappresentato in aula dall'avvocato Michele Gigliotti. Il pentito in aula ha escluso l’ingresso - almeno nel suo piano - di sostanze proibite: "non entrava droga, alcol e nessuna altra cosa" ma ha riferito al pm della presenza di "detenuti dotati di un elevato potere decisionale e in grado di determinare gli spostamenti dei detenuti da una cella ad un’altra". Inoltre Noblea ha raccontato di aver goduto di un unico “privilegio” nel corso della sua detenzione: la possibilità di "comunicare dalla finestra con la ex compagna". Il tutto avveniva - secondo il racconto del pentito - grazie alla complicità delle guardie: "si giravano dall’altra parte, dovevano chiudere un occhio perché non potevano permettersi di spifferare quello che facevano i detenuti altrimenti un giorno qualcuno avrebbe potuto bussare alla loro porta".
Il procedimento a carico degli imputati proseguirà con l’ascolto delle confessioni di altri collaboratori di giustizia.

Fonte: corrieredellacalabria.it

Foto © Imagoeconomica

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