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"Arrivai in via Pipitone verso le 7.50 e posteggiai esattamente dove volevano i cosiddetti uomini d'onore, tra la 126 verde imbottita di tritolo e una 500 beige. Insomma, quello spazio fu la trappola". Così Giovanni Paparcuri, 65 anni, ha raccontato quel giorno indelebile, per lui che era lì e per il resto degli italiani che appresero dai tg la notizia. Il 29 luglio 1983, quando una 126 imbottita di tritolo dai sicari di Cosa Nostra è esplosa uccidendo il giudice Rocco Chinnici, due carabinieri della scorta, il maresciallo Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Si trattava del primo attentato mafioso eseguito con tecniche terroristiche. Lo scenario era da Beirut, auto in fiamme e palazzi sventrati. All'epoca Paparcuri aveva 27 anni e faceva l'autista delle blindate al palazzo di giustizia di Palermo, per Chinnici, ma anche per Giovanni Falcone. Ieri, nel giorno del 38 anniversario della strage di via Pipitone, Giovanni Paparcuri era presente e silenzioso. Il suo "ricordo" di quel giorno - descritto sulla pagina Facebook - prosegue: "Sul posto già c'erano i ragazzi con l'Alfasud di scorta, Alfonso Amato, Cesare Calvo, Mario Trapassi. La macchina militare con Antonio Lo Nigro e Ignazio Pecoraro. L'appuntato Bartolotta che doveva essere in ferie era sul marciapiede e giustamente incazzato". "Il signor Stefano Li Sacchi (il portiere dello stabile n.d.r) era già operativo a fare le pulizie e stazionava davanti il portone perchè poi il consigliere passando, come ogni mattina, gli avrebbe stretto la mano. Scesi dalla blindata, salutai tutti e stavo per leggere il giornale appoggiandomi sul cofano dell'autobomba sennonché l'appuntato Bartolotta mi pregò di andare a prendere la ricetrasmittente che si trovava nell'auto di scorta per posizionarla nella blindata. Così feci e fu la mia salvezza". Dopo l'eccidio Paparcuri passò un anno di convalescenza per poi tornare al lavoro, ma in ufficio, collaborando con il giudice Giovanni Falcone e poi anche con Paolo Borsellino che in quel periodo stavano lavorando al maxiprocesso negli uffici blindati del Tribunale. Oggi il 'bunkerino' è diventato il museo Falcone-Borsellino: un luogo di memoria ideato e avviato da Paparcuri, in cui vi sono gli strumenti originali dell'epoca utilizzati dai due magistrati, le macchine da scrivere, gli appunti, i primi computer, sedie e scrivanie. E frotte di studenti e scolaresche che ascoltano, in visita, i racconti di Giovanni Paparcuri, l'uomo che, è il caso di dirlo, è vissuto due volte.

Foto © Davide de Bari

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