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Si spegne il magistrato che appoggiava la politica carceraria dura contro i mafiosi

E' morto all'età di 88 anni l'ex magistrato, ed ex capo del Dap, Nicolò Amato. La notizia, anticipata da alcune testate locali siciliane, trova conferma in ambienti giudiziari e penitenziari. Amato, originario di Messina, nel corso della sua carriera ha lavorato per molti anni come pm a Roma, occupandosi di importanti processi come quello contro i Nuclei Armati Proletari, quello contro Alì Agca per l'attentato al Pontefice Giovanni Paolo II, e quello contro le Brigate Rosse per i delitti avvenuti a Roma, in particolare il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Per 10 anni - dal gennaio 1983 al giugno 1993 - è stato direttore generale dell'Amministrazione penitenziaria: nel 1986 è stato uno dei fautori della legge Gozzini sull'ordinamento penitenziario.

“Quella volta che fui cacciato dal Dap”
Parte della storia di Nicolò Amato rientra anche nella vicenda della trattativa tra Stato e mafia. Il 3 febbraio del 2015 Nicolò Amato, infatti, raccontò al processo sulla medesima trattativa, come nel giugno 1993 fu cacciato dal Dap per la sua politica in tema carceri. Amato venne cacciato, spiegò, “perché sostenevo una politica carceraria di rigore verso i boss mafiosi". Secondo l’ex magistrato dietro il suo allontanamento dall'Amministrazione Penitenziaria ci sarebbe stato un disegno preciso: togliere di mezzo chi come lui, dopo le stragi mafiose di Capaci e via D'Amelio, aveva sostenuto attraverso il 41 bis una politica carceraria molto rigorosa per gli uomini d'onore. Secondo la tesi di Amato, tra i personaggi che si sarebbero opposti alla sua linea e che l'avrebbero allontanato dal Dap, ci sarebbe stato l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e l'ex capo della polizia Vincenzo Parisi. ''Dopo la strage di Capaci concordammo con l'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli di reagire nel modo più duro possibile dando alla mafia non solo una risposta politica, ma anche emotiva'', aveva raccontato Amato alla Corte d'Assise, in trasferta nel bunker di Rebibbia per ascoltare una serie di testimoni. ''Martelli mi disse 'Dammi il modo di fare un atto politico significativo'. Io chiamai la direttrice del carcere Ucciardone e individuammo i 55 detenuti più pericolosi da trasferire. Li portammo a Pianosa e gli applicammo il carcere duro'', aveva detto Amato in aula. Dopo alcuni giorni in due tranches si decise lo stesso provvedimento prima per 532 detenuti, poi per altri 567. Ma le scelte di Amato, sostenute politicamente da Martelli, ebbero, secondo il teste, uno stop con l'arrivo di Giovanni Conso in via Arenula. Amato aveva parlato di un ministro molto preoccupato del parere di Mancino e di un Vincenzo Parisi contrario alle strette carcerarie fino ad allora sostenute. ''Incontrai il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni qualche giorno prima del mio allontanamento dal Dap e lui mi disse che il presidente della Repubblica aveva deciso così e che entro una settimana me ne dovevo andare'', aveva ricordato l’ex numero uno del Dap, che subito dopo quel ''licenziamento'' andò a parlare con Conso. ''Il Guardasigilli non mi diede alcuna spiegazione. Mi disse che si trattava di un normale avvicendamento''. Secondo Amato il suo allontanamento è legato alla lettera di minacce inviata poco prima a Scalfaro: era firmata da sedicenti familiari di detenuti e lamentava la durezza del regime carcerario sotto la sua gestione. Una missiva in cui Amato era definito ''il dittatore’’. L’ex capo del Dap, però non venne mai informato dell'arrivo di quella lettera. ''Conteneva gravissime minacce a me, ma non mi fu detto nulla. Ne seppi l'esistenza dopo tempo. Se me ne avessero parlato, avrebbero dovuto dirmi se ero d'accordo a un alleggerimento del regime di 41 bis e io avrei risposto di no. Ma a quel punto non avrebbero mai potuto giustificare la mia rimozione''. Dopo l'allontanamento di Amato, il capo dello Stato Scalfaro affidò la gestione del Dap ad Adalberto Capriotti e a Francesco Di Maggio.

Foto © Imagoeconomica

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