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“Subisco attacchi in quantità industriale, continuo a ricevere insulti e minacce social. Ho spesso temuto per l’incolumità mia e della mia famiglia”. Torna a parlare Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane morto nel 2009, una settimana dopo il suo arresto, a causa del pestaggio subito dai carabinieri che l’avevano fermato.
Stavolta, però, lo ha fatto da testimone nel processo per i depistaggi seguiti alla morte del fratello. “Passo buona parte del mio tempo in commissariato o alla polizia postale per presentare denunce contro chi attacca. Tra le accuse più assurde che mi vengono rivolte c’è quella che mi sono arricchita con la morte di mio fratello”, ha continuato.
Ilaria si è trovata, per assurdo, a dover spiegare che i soldi ricevuti come risarcimento “sono serviti a vivere, a rimediare ai danni lavorativi e alle spese processuali di questi undici anni. La nostra situazione patrimoniale è devastante. Purtroppo 11 anni sono tanti. Quei soldi sono serviti ad andare avanti e non è rimasto più niente”.
Il processo sui depistaggi è a carico di otto carabinieri, ed è successivo a quello per il pestaggio che ha già visto le condanne in primo grado di due militari: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ai quali sono stati inflitti 12 anni per omicidio preterintenzionale.


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Roma, 17 ottobre 2018. Incontro tra il Ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, Ilaria Cucchi e il comandante generale dell'arma dei Carabinieri, Giovanni Nistri


Nessuno contro l'Arma
“Non sono assolutamente contro i carabinieri, le forze dell’ordine o le istituzioni - ha evidenziato rivolgendosi alla corte - Anzi credo che la mia battaglia è stata anche nell’interesse della parte buona, la stragrande maggioranza, delle forze dell’ordine. Non c’è nessuna guerra tra la famiglia Cucchi e l’Arma dei carabinieri”.
Nel corso della deposizione Ilaria ha poi ricostruito la lunga battaglia di questi anni, a cominciare dalle tante mancate risposte istituzionali: “Ricordo che andai alla question time di Alfano in Senato, dissi se ci avessero dato una mano, lui disse in aula che le lesioni erano dovute a una caduta. Mi sembrò una non risposta”. Poi ha ricordato gli incontri con i vertici dell’Arma: “In un incontro, Del Sette (Tullio ndr) disse che l’Arma è una famiglia e se un figlio sbaglia che facciamo? Era una sua osservazione. Con Nistri (Giovanni ndr) parlai dei commenti e post di Mandolini nei miei confronti. Lui rispose: Ognuno di noi ha degli scheletri nell’armadio”.
Cucchi e Nistri furono ricevuti anche dall’ex ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. “Il generale - sostiene Cucchi - esordì dicendo: io alle donne perdono tutto, e agli uomini no. Guardando negli occhi l’avvocato Anselmo. Mi sembrò un messaggio d’avvertimento. Poi parlò di Casamassima (il militare che ha deciso di testimoniare alcuni anni dopo la morte di Stefano, rendendo possibile la riapertura dell’inchiesta, ndr), dicendo che ci fossero procedimenti disciplinari, non entrando nei contenuti ma anticipando che ci fossero cose gravi”.

Il rapporto con Stefano
"Io e Stefano eravamo legatissimi, era la persona che più amavo al mondo" ha proseguito la Cucchi. "La decisione di fare scattare e rendere pubblica quella foto fu difficile: dovetti discutere con i miei genitori, mia madre diceva ‘Stefano non avrebbe mai voluto mostrarsi così e io le risposi ‘Stefano non sarebbe mai voluto morire così. Capii che dovevamo dimostrare che Stefano stava bene prima dell'arresto e il giorno del funerale decidemmo di fare scattare quelle foto. Se non lo avessimo fatto non saremmo a questo punto".


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Roma, 14 novembre 2019. Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo, avvocato della famiglia Cucchi e il carabiniere, Riccardo Casamassima


Il primo processo
La donna ha anche ricordato le difficoltà incontrate nel primo processo: “Fu un incubo, un processo a mio fratello, un processo ad un morto. A ogni udienza mi dicevo: Stefano mio a cosa ti stanno sottoponendo. A un certo punto ho sentito parlare anche di frattura da bara, come se mio fratello se la fosse fatta da morto. Si parlava di tutto fuorché del motivo per cui eravamo lì: della vita di Stefano, della sua magrezza, di che fine aveva fatto la cagnetta, dei rapporti nella nostra famiglia. La sentenza di primo grado stabilì che la morte di Stefano era da attribuire a una colpa medica. Amici e parenti degli assolti insultarono e umiliarono la mia famiglia mostrando anche il dito medio”.
Oltre alla sorella di Cucchi sul pretorio è salito Nicola Minichini, uno degli agenti della Polizia Penitenziaria imputati nel primo processo e poi assolti per non aver commesso il fatto. “Non so come ne siamo usciti, eravamo imputati in un processo farsa. Io sono stato tradito da altri servitori dello Stato - ha detto in aula - che hanno falsificato documenti, uomini che portano la divisa anche se di un altro colore ma che lavorano per lo Stato come me. Una cosa impensabile. Io e i miei colleghi eravamo i pesci piccoli in una vicenda così grande, c’era una rete ben architettata. Per l’opinione pubblica eravamo dei mostri. Io sapevo di non aver fatto niente, eppure ero continuamente assediato dai giornalisti”.

Foto © Imagoeconomica

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