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Mamma e papà Cucchi con le lacrime ricordano il figlio in lacrime: “Non lo abbiamo mai abbandonato”

A Rebibbia sentito il generale Tomasone sul mancato fotosegnalamento del geometra romano

"Stefano aveva avuto problemi di tossicodipendenza, ma dopo quasi 4 anni di comunità ne era uscito benissimo. Nei mesi che hanno preceduto il suo arresto e la sua morte, era tornato quello che era sempre stato da piccolo e da adolescente. Si stava ricostruendo una vita. Stava benissimo, si alzava la mattina e andava a correre, passava in chiesa per dire una preghiera. Andava al lavoro da mattina a sera nello studio del padre e poi la sera in palestra, dopo cena. Erano anni che non soffriva più di crisi epilettiche". E’ questo il ricordo di Rita Calore, madre di Stefano Cucchi, parte civile nel processo contro gli otto carabinieri accusati di aver depistato al fine di coprire gli autori del pestaggio subito in caserma dal giovane geometra 31enne la sera del suo arresto, il 16 ottobre 2009. "Mio figlio - ha detto la donna, insegnante di scuola materna in pensione -, era goloso, mangiava di tutto ma stava attento a non superare un certo peso perché faceva pugilato. Eppure hanno detto che era sieropositivo, anoressico, che noi lo avevamo cacciato di casa. Tutte cose inventate e inaccettabili”. "Questa storia - ha rivelato Rita Calore - ci ha distrutto fisicamente e economicamente, abbiamo passato momenti terribili, abbiamo chiesto prestiti in banca per far fronte alle spese del processo. Io mi sono ammalata, mio marito pure. Il lavoro ne ha risentito, lo studio, dove lavorava anche mia figlia Ilaria, e' andato sempre peggio, alcuni dipendenti sono andati via. Per quasi 10 anni non ho saltato un'udienza". "Quando vedemmo il suo cadavere all'istituto di Medicina legale, io che lo avevo partorito per una frazione di secondo ho fatto fatica a riconoscere mio figlio. Era dentro una teca di vetro, con una marea di poliziotti intorno, coperto solo da un lenzuolo fino al collo. Solo dopo abbiamo scoperto il resto del corpo, con le fratture dietro la schiena. Era uno scheletro - ha ricordato in lacrime la mamma che non ha trattenuto l’emozione -, con gli occhi mezzi aperti, la bocca spalancata. Quello non era Stefano. C'era un poliziotto che girava intorno a quella teca scuotendo la testa come a dire 'non è possibile'. Davanti a quel corpo abbiamo giurato che verità e giustizia sarebbero uscite fuori, l'avremmo fatto per lui. Se noi avessimo raccontato come avevamo visto Stefano nessuno ci avrebbe creduto. Così dopo qualche giorno decidemmo di mostrare le foto del cadavere, anche se all'inizio io non ero d'accordo". In aula anche Giovanni Cucchi, padre di Stefano, ha voluto ricordare suo figlio e il cambiamento che era riuscito a raggiungere dopo il periodo della tossicodipendenza. “Stefano si era ripreso dalla droga, stava bene, lavorava con me ed era entusiasta di quello che faceva. Quando è stato arrestato per droga mi è caduto il mondo addosso. E' stata una doccia fredda”, ha affermato. Giovanni Cucchi ha poi letto davanti alla corte una missiva che scrisse suo figlio qualche anno prima della sua morte. "Porto sempre con me una lettera che Stefano mi scrisse nell'agosto 2006 - ha testimoniato il padre trattenendo a fatica le lacrime - per dimostrare che mio figlio teneva alla sua famiglia e noi a lui. Ilaria ha scritto un libro per smentire che noi avessimo abbandonato Stefano. La sera dell'arresto nessuno di noi gli ha rivolto brutte parole. Certo, eravamo delusi. In tribunale - ha aggiunto rievocando l'udienza per direttissima a poche ore dall'arresto per droga - ho visto mio figlio col volto sfigurato, gonfio come una zampogna e con le borse sotto gli occhi. In aula Stefano mi disse 'papà, sono stato incastrato'. Nonostante le manette ai polsi mi buttò le braccia al collo e mi disse ‘è finita'. E io, per tranquillizzarlo, gli risposi 'Stefano, ti portiamo in comunità’”. "Negli ultimi anni - ha concluso Giovanni Cucchi - ho avuto diversi problemi di salute ma io non ho perso una sola udienza dei tanti processi".

Le parole del generale sul mancato fotosegnalamento
In aula bunker a Rebibbia è stato audito anche il generale Vittorio Tomasone, all’epoca comandante provinciale di Roma, il quale ha ribadito che l’Arma non pensò di svolgere alcun accertamento sul mancato fotosegnalamento in Casema del geometra. "Non è che si voleva nascondere, era solo che non si è ritenuto di approfondire la questione del mancato fotosegnalamento”, ha affermato. “Quando il 30 ottobre 2009 convocai tutti i militari che avevano avuto a che fare con Cucchi mi fu detto che non fu fotosegnalato per un problema tecnico ma che si andò oltre perché il ragazzo era stato già fotosegnalato in passato - ha spiegato Tomasone rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò - . Ad avviare un eventuale procedimento disciplinare avrebbe dovuto essere il comandante di compagnia. Il mancato fotosegnalamento è stato oggetto di attenzione da parte dei pm di allora: in quel momento apparivano come fatti normali, oggi sono oggetto di attenzione".

Foto © Imagoeconomica

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