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Molti di coloro che ricordano Rosario Livatino nel giorno della sua scomparsa riportano questa frase trovata tra i suoi appunti: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”, una frase che simbolicamente raccoglie tutta la sua vita, perché “il giudice ragazzino” fu credente e credibile dall’inizio alla fine e la sua storia rappresenta davvero un esempio non solo per tanti giovani magistrati, ma anche per tutti quei cittadini onesti che credono nei valori di giustizia ed uguaglianza di fronte alla legge.
Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre del 1953, figlio di Vincenzo Livatino, impiegato nell’esattoria comunale e di Rosalia Corbo; a diciotto anni nel 1971 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo seguendo le orme paterne e laureandosi con la lode il 9 luglio 1975 a soli ventidue anni. Che fosse un uomo di fede profonda è fuori dubbio. Nella sua agenda del 1978, ad esempio, si legge un’invocazione che consacra tutta la sua vita: “Oggi ho presentato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”, queste sono le parole che Livatino scrisse dopo il suo ingresso in magistratura, un’invocazione al Divino affinché lo aiutasse a compiere il proprio dovere fino alla fine, senza nessun tipo di remora.
Nel 1979 Livatino operò presso il Tribunale di Agrigento come sostituto procuratore fino al 1989, in quel periodo portò avanti con rigore e professionalità indagini complesse e delicatissime sulle organizzazioni criminali mafiose nonché su diversi episodi di corruzione dove erano coinvolti elevati esponenti della politica, ciò che ne consegui fu un terremoto politico che prese il nome di “Tangentopoli Siciliana”. Il giudice essendo privo di condizionamenti e avendo sempre come guide primarie la sua fede e il suo giuramento non ebbe remore a chiedere conto anche ad amministratori e politici del loro operato. Tanto che fu tra i primi ad interrogare un ministro dello Stato. Avvenne nel 1984 quando raccolse a verbale le dichiarazioni, come persona informata sui fatti, del più volte ministro democristiano, Calogero Mannino, politico la cui posizione è sempre stata controversa.
Tenuto conto della giovane età e del lavoro che stava conducendo è facile pensare che il futuro del giovane magistrato sarebbe potuto essere di grandissimo spessore sul piano professionale. Proprio per il suo impegno ma la mafia, in questo caso la Stidda, decise di porre fine alla sua vita.
Era mattina presto quel venerdì 21 settembre 1990, esattamente trent’anni fa, il giudice a bordo della sua Ford Fiesta color rosso amaranto stava andando a lavorare in tribunale percorrendo la vecchia statale 640 che collegava Agrigento a Caltanissetta, con lui nessuna scorta, quando all’altezza di Contrada Gasena la sua auto venne intercettata da quattro sicari assoldati dalla Stidda di Canicattì e Palma di Montechiaro. Il commando di fuoco entrò in azione, fu questione di attimi, l’auto dei sicari si affiancò a quella del giudice e aprirono il fuoco, il giudice cercò di salvarsi tentando la fuga attraverso la campagna ma venne raggiunto dal suo assassino: “Perché? Che cosa ho fatto?” chiese il magistrato ormai senza forze ma Gaetano Puzzangaro non rispose e sparò.
I killer di Rosario Livatino sono stati tutti identificati dal supertestimone Ivano Nava (agente di commercio poi diventato testimone di giustizia) che, essendosi trovato sul luogo dell’agguato, decise di raccontare quanto aveva visto agli investigatori. Grazie a Nava vennero arrestati e condannati all'ergastolo come mandanti Antonio Gallea, Salvatore Perla e Giuseppe Montanti, in qualità di killer Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato e Gianmarco Avarello.
In questi giorni ha fatto molto discutere la notizia che uno dei mandanti dell'omicidio del giudice Livatino, l’ergastolano Giuseppe Montanti detenuto presso il carcere di Padova, ha usufruito del permesso premio della durata di nove ore ed incontranto il 14 settembre, in una località segreta, il figlio maggiorenne. Montanti ha ottenuto “permesso premio” anche grazie ad una recente sentenza della Corte Costituzionale in cui si ritiene “non necessaria” la confessione del reato per ottenere il permesso - premio, rendendo di fatto inutili le note del dipartimento della amministrazione Penitenziaria (Dap), del 30 aprile 2019, con cui si evidenziava che “non ha mai collaborato” e “che non si può escludere eventuale ulteriore collegamento con ambienti devianti esterni”. Oltre a questa si aggiunge anche una preoccupante nota del 27 gennaio 2020 della questura di Agrigento, richiesta dal magistrato di sorveglianza di Padova, dove viene scritto che l’organizzazione criminale chiamata Stidda è “sul piano organizzativo non del tutto disarticolata e tutt’ora operante nel territorio di Agrigento”.

A commentare la notizia Enzo Gallo, cugino del giudice ucciso e componente dell'associazione "Amici di Livatino": "Senza voler entrare in polemica con alcuno, anche perché è acceso il dibattito di questi giorni sulla metodologia così come sulla legislazione in materia di concessione di permessi premio ai carcerati per gravi delitti contro la persona, in merito alla concessione e all'esercizio di un diritto previsto dalla legge ad uno dei mandanti dell'omicidio Livatino c'è solo da riflettere e valutare come lo Stato Italiano voglia atteggiarsi in futuro verso un problema anche di coscienza. Montanti dopo 20 anni passati in carcere con un comportamento pare esemplare può godere di questo premio. Lo prevede la legge e quindi è un suo diritto. Per dirla come la vittima 'dura lex, sed lex'. Però è forse un segnale che di questa concessione di beneficio si stia avendo notizia solo oggi a meno di una settimana dal trentennale del vile e barbaro omicidio mafioso di un valido servitore dello Stato nonché unico figlio degli anziani genitori".

Anche il Procuratore di Agrigento Luigi Petronaggio ha voluto commentare la decisione del Tribunale di Sorveglianza: “A parte la tragica beffarda coincidenza del permesso premio ad uno degli assassini del giudice Livatino di cui il 21 settembre ricorre il trentennale della barbara uccisione, l'ordinanza dei giudici di sorveglianza di Padova, in linea con le decisioni della Corte CEDU e della Corte Costituzionale, pone una serie di problemi che sono al tempo stesso giuridici e morali: primo fra tutti quello della funzione rieducativa della pena non disgiunta da quella della meritevolezza dei benefici carcerari con la sola buona condotta non accompagnata da una collaborazione attiva con l'Autorità Giudiziaria".
"Semplificando: questo nostro Paese è pronto a perdonare sulla base della semplice dissociazione, ovvero deve pretendere, forse anche con una certa violenza morale, la collaborazione piena ai limiti della necessaria delazione? La risposta sta forse nel verificare in concreto se siamo realmente usciti da una emergenza mafiosa e se siamo in grado di rimarginare le ferite morali del Paese senza fare necessariamente ricorso ad una concezione della giustizia in senso solo retributiva e punitiva”.

Tornando a parlare di Livatino non può passare in secondo piano anche l'aspetto più spirituale della storia del giudice. Dal 2011 è stato dato il via al processo di beatificazione. Durante la fase diocesana hanno testimoniato 45 persone sulla vita e la santità di Rosario Livatino, e tra questi anche il suo killer Gaetano Puzzangaro. La causa di beatificazione verrà probabilmente completata entro l’autunno. Sarebbe il primo magistrato in Italia a diventare “beato”, presupposto indispensabile per la dichiarazione di Santità, riconoscimento che la Chiesa impegnata nella lotta contro la mafia ha finora assegnato al solo padre Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre del 1993, confermando un’attenzione verso un territorio, quello agrigentino, dove, nella valle dei Templi, Papa Wojtyla, sempre nel ’93, pronunciò la sua celebre invettiva contro Cosa Nostra: “Mafiosi convertitevi! Cambiate vita!... Dio ha detto ‘Non Uccidere’! …e un giorno verrà il giudizio Divino!”, invitando i mafiosi al pentimento e alla conversione.
Anche Papa Francesco il 21 settembre del 2017, durante l’udienza alla Commissione parlamentare Antimafia, volle “rivolgere il pensiero a tutte le persone che in Italia hanno pagato con la vita la loro lotta contro le mafie”. “Ricordo - aggiunse Papa Francesco - in particolare, tre magistrati: il servo di Dio Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi 25 anni fa insieme a quanti li scortavano”. Ma prima del Pontefice fu la DIA nel 2012 a ricordare per la prima volta insieme i tre giudici in un francobollo commemorativo da 60 centesimi emesso dalle Poste con il logo della Direzione Distrettuale Antimafia.
Rosario Livatino fu un magistrato che adottò come base del proprio lavoro alti valori morali e spirituali, mai mancando di far riferimento a questi per svolgere la propria professione; ci credeva ma soprattutto era credibile.

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