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di Karim El Sadi - Video
Dal protocollo farfalla, al 41 bis, passando per le scarcerazioni degli ultimi mesi
Repici racconta delle missive del 2008 tra i boss detenuti al carcere duro

“Mafia e depistaggi: il carcere come centro occulto di potere”. E’ questo il titolo dell’ultimo convegno online del Movimento delle Agende Rosse trasmesso ieri su Facebook e You Tube. A parlarne, in occasione dell’anniversario di Capaci sono stati Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo), Stefano Mormile (fratello dell'educatore carcerario Umberto), Giovanni Spinosa (Presidente del Tribunale di Ancona), e Fabio Repici (avvocato di familiari di vittime di mafia). A prendere parola per primo durante l’incontro moderato dalla referente Alessandra Antonelli è stato il magistrato Giovanni Spinosa, che in passato si è occupato, fra le altre cose, delle indagini sui sequestri di persona ad opera dell’Anonima Sarda e sui crimini della Uno Bianca. Spinosa si è in primo luogo soffermato sulla questione, più che mai recente, inerente al regime carcerario duro 41bis e alla sua costituzione. “Se noi partiamo dal ruolo rieducativo della pena è evidente che la mancata scelta di pentimento del mafioso è una situazione critica rispetto alla quale la comunità nell’ottica di prevenzione si deve tutelare. Nel corso degli anni gli attacchi che si sono mossi - ha proseguito - sono stati mossi da un parametro che a mio avviso continua a perdere di vista che da un lato il ruolo rieducativo della detenzione ha una polifunzionalità e dall’altro la specificità delle consorterie criminali mafiose e la loro immanenza nel tempo. Per cui - ha spiegato - non si può parlare di rieducazione finché esiste, in assenza di un pentimento effettivo, la possibilità di continuare ad incidere sul territorio sia dall’interno del carcere che dall’esterno”. Spinosa ha parlato brevemente anche di quelle che sono state le dinamiche grigie che hanno gravitato attorno al sistema penitenziario italiano, e quelle che lo hanno riguardato dall’interno.
“Quando si parla delle stragi del 1992 - ha detto Spinosa - si pensa soprattutto al contesto siciliano. Ma non bisogna perdere di vista che l’attacco allo Stato nasce dalle alleanze che si creano proprio all’interno delle carceri, specie in quelle del nord Italia (Cuneo, Opera, Asti, Parma)”. In questo senso la stessa Falange Armata, che è stata il comune denominatore dell'"epopea stragista, nasce all’interno delle carceri come espressione di alleanza delle stesse e capacità di questa alleanza di interloquire con l’esterno delle carceri”. Sempre sul carcere duro Spinosa ha aggiunto che negli anni il 41bis “è stato progressivamente annacquato tramite alcune operazioni e tutto questo proviene da un problema di gestione dell’amministrazione carceraria da parte dello Stato”. Venendo ai giorni nostri, invece, secondo il magistrato la questione delle scarcerazioni dei boss per i rischi di contagio da Coronavirus in cella è dovuta “agli errori dei magistrati di sorveglianza, però diciamo anche che le linee guida del Csm quando ci sono situazioni di emergenza di questo tipo dovrebbero intervenire immediatamente. Abbiamo avuto - ha spiegato - degli evidenti ritardi da parte del Csm nel dire che determinate norme andavano interpretate in un certo modo. Quando il singolo magistrato di sorveglianza viene lasciato in una situazione di difficoltà dell’interpretazione della norma che si voglia sbagliare o che si possa sbagliare diventa un fatto possibile. Non voglio difendere chi ha sbagliato - ha precisato - Ma l’intervento del Csm, che ha grandi magistrati d’esperienza nel settore, è stato tardivo. Un intervento più immediato avrebbe quantomeno messo con le spalle al muro i singoli magistrati di sorveglianza laddove avessero voluto adottare degli interventi bonari nel corso di questa emergenza”.

Repici rivela le lettere che si scambiavano i boss al 41bis

Se c’è un elemento sul quale, in tema di regime carcere duro, tutti i relatori si sono trovati in pieno accordo è il principio di “impermeabilità” che esso deve garantire.
“La principale ragione del 41bis è l’impermeabilità. - ha esordito Fabio Repici - Il detenuto mafioso, poiché continua ad esserlo anche in carcere, deve essere impossibilitato a comandare anche da dietro le sbarre. L’idea di Giovanni Falcone nacque proprio per impedire che ci fossero ordini criminali dal carcere. Ma accade che in realtà l’applicazione del 41bis ha dei buchi madornali”, ha spiegato. “Io ho scoperto documentalmente che non solo l’impermeabilità nei messaggi verso l’esterno è una cosa che alle volte ha subito probabilmente qualche défaillance, ma ho scoperto che non esiste impermeabilità nelle comunicazioni tra i più grandi capimafia che possono tenere corrispondenza epistolare tra loro addirittura da una struttura di 41bis a un’altra struttura al 41bis”.
Nel leggere in diretta alcune carte, con la sorpresa dei vari ospiti, Repici ha riportato alcuni esempi di “corrispondenze epistolari” intercorse tra alcuni boss mafiosi detenuti in 41bis. “C’è una lettera di Giuseppe Gullotti, cioè il mandante dell’omicidio del giornalista Giuseppe Alfano che è detenuto al 41bis a Cuneo, al signor Giuseppe Graviano che in quel momento era detenuto, sempre al 41bis, a Milano Opera. Il 9 dicembre del 2008 Giuseppe Gullotti, oltre ad augurare per l’anno nuovo che sia messaggero di buone novelle, concludeva con inviargli un calorosissimo abbraccio ricordandogli sempre con tanta stima e profonda amicizia”.
L’avvocato ha continuato a leggere queste lettere in live. “Domenico Papalia scrive a Giuseppe Gullotti il 18 marzo 2008 e addirittura Papalia, il mandante dell’omicidio Mormile, gli dice “vi prego di salutare i paesani e coloro che ho lasciato e sono ancora lì”. Quando qualcuno manda saluti ai paesani non si tratta di gente comune, ma di soggetti che sono al 41bis in quanto capi mafia”.
“Un’altra lettera del boss Domenico Paviglianiti che scrive dal 41bis di Ascoli Piceno al 41bis di Cuneo, dove si trova Gullotti, che gli dice “vi prego di salutarmi i miei paesani e di fargli gli auguri da parte mia. Qui vi salutano i vostri compaesani”.
“Francesco Sergi, anch’egli ‘ndranghetista, si trovava al 41bis nel carcere di Ascoli Piceno e comunica a Giuseppe Gullotti. “Quando sono arrivato qui gli ho scritto una cartolina e voi mi avete risposto con una lettera e poi ho risposto alla vostra lettera e non ho più avuto risposta perciò sono sicuro che o la mia o la vostra si è persa e come con voi mi è successo con tanti altri a cui ho scritto e non ho mai avuto risposta”. Alla luce di quest’ultima lettera, si è chiesto l’avvocato, “possiamo almeno dubitare che questo sia anche un messaggio criptico? Possiamo dire che è una cosa scandalosa che capi mafia al 41bis si mandino questi messaggi. Il boss Sergi, inoltre scrive a Gullotti, “da qui vi saluta tanto Peppino” che immagino non sia un congiunto di Gullotti ma un compagno di detenzione di Sergi, cioè un altro capo mafia. “Vi prego di salutare i miei corregionali e tutte le persone - continua ancora Repici leggendo la lettera - che ritenete opportuno”. Cioè manteniamo le alleanze (dice Repici). La risposta di Gullotti a Sergi è “vi prego di salutarmi Salvatore e lo zio Peppino”. “Stiamo parlando di soggetti che si muovono in organizzazioni dentro le quali delle volte ci sono situazioni di crisi. Questo è un modo di mantenere le relazioni interne alle organizzazioni mafiose. Queste comunicazioni sono corpo di reato di 416 bis!”.
“Questi documenti dimostrano - ha aggiunto - come nell’anno 2008 capi mafia tra cui Graviano, Gullotti, Papalia, Sergi, Paviglianiti riuscivano a fare comunicazioni tra di loro mentre si trovavano al 41bis. Altro che impermeabilità - ha chiosato il legale -. Qui quasi veniva più facile ai capi mafia comunicare tra loro dentro le carceri piuttosto che fuori. Questo è il motivo per cui mi innervosisco quando leggo delle presunte polemiche sul 41bis fra garantisti e giustizialisti”. Secondo il legale la dimostrazione che “ci sono molte lacune sul 41bis". “Com’è possibile quello scambio epistolare? - si è chiesto - La legge prevede che il magistrato di sorveglianza curi la censura nella corrispondenza dei detenuti al 41bis. Il magistrato delega il proprio potere di censura al direttore della struttura penitenziaria e puntualmente questi si premura di delegarlo a qualche esponente del corpo di polizia penitenziaria. Noi abbiamo certezza che nel 2008 a Cuneo nessuna di queste comunicazioni, come risulta dal fascicolo, fu impedita. Quindi quelle comunicazioni arrivarono sicuramente a destinazione. Nel giorno in cui si ricorda Giovanni Falcone mi sembra la cosa più appropriata e mi sembra che serva anche a dimostrare l’insulsa retorica e riprovevole ipocrisia con cui ancora oggi alcuni ricordano il giudice”.

Falange Armata e il caso Mormile
Nel corso del convegno gli ospiti si sono concentrati infine sulla misteriosa Falange Armata, la famosa sigla che accompagnò i principali eccidi e misteri degli ultimi anni della Prima Repubblica.
“Abbiamo certezza processuale che i primi attori della Falange Armata furono il clan Papalia, in particolare Domenica Papalia, ovvero l’esponente di ‘ndrangheta più importante del nord Italia, e i servizi di sicurezza che fecero da istruttori al clan Papalia sia per l’omicidio Mormile che per le rivendicazioni di Falange Armata”, ha detto Fabio Repici. Ma gli attori non furono, per quanto concerne il mondo mafioso, solo esponenti della ‘ndrangheta, bensì anche di Cosa nostra. “Gli attori furono esponenti di Cosa nostra per ordine di Salvatore Riina che a fine 1991 parteciparono a un progetto palesemente politico eversivo e distruttivo dell’ordinamento costituzionale e dell’unità dello Stato per quelle che erano le indicazioni che venivano date a quei comunicati, ha spiegato. “Questo gioco eversivo diventa un gioco che serve a dare indicazioni sia su delitti da compiersi che su delitti commessi certamente dagli stessi che si occuparono dei testi delle rivendicazioni sia a lanciare evidenti messaggi politici”. Si tratta di una vicenda, ha sottolineato Repici, “che appartiene a una delle tante di deviazione del potere nella nostra Repubblica.
L’avvocato di alcuni dei familiari vittime di mafia si è poi detto “convinto che in realtà il progetto Falange Armata è ben conosciuto da alcuni apparati dello Stato, rappresenta un po’ uno di quei interna corporis che hanno fatto la storia vera del nostro Paese. Mi auguro - ha concluso - che arriverà il giorno in cui anche sulla Falange Armata conosceremo bene com’è andata. Noi sappiamo solo com’è andata sulla parte di ‘ndrangheta e Cosa nostra. Resta da conoscere la parte sull’adesione di apparati istituzionali a quel progetto”.
Sempre sul tema Falange Armata è voluto intervenire anche il presidente del Tribunale di Ancona. “L’errore che normalmente si commette, perché indotto da anni di depistaggio sulla lettura della Falange armata, è quello di considerarla come un progetto distinto. Le fonti di conoscenza che abbiamo interne ad essa sono tre. ha spiegato il giudice - La prima è la rivendicazione dell’omicidio Umberto Mormile che parte dall’organizzatore del delitto Antonio Papalia. La seconda è tutto ciò che sappiamo sugli incontri terminati nelle campagne di Enna sull’attacco allo Stato da parte di Cosa Nostra e sulla convergenza di Cosa nostra all’interno di questo progetto eversivo e gli attentati vennero firmati dalla Falange Armata. Il terzo elemento sono le dichiarazioni di Alberto Savi (uno dei componenti della banda della Uno Bianca insieme ai fratelli Fabio e Roberto, ndr) ai compagni di cella. Sono tre fonti di conoscenza che ci dicono che non esistono dei gruppi eversivi o alleanze criminali che operano e al contempo c’è un soggetto esterno. Tutto quello che succede dal 1990 al 1994 se dovessimo dargli un nome a cominciare dagli omicidi iniziali fino alle bombe è Falange Armata. Inizialmente chiamata Falange Armata carceraria, e il fronte carcerario sarà sempre presente, insieme a quello politico”.
“Dobbiamo aspettare che qualcuno ci parli meglio di queste vicende, è vero - ha detto Spinosa riprendendo le parole di Repici - ma abbiamo già molti elementi per comprendere quello che c’è stato, dalla fine degli anni 90 quando tutti i pentiti, nell’inchiesta Sistemi Criminali, ricostruirono quelle trame. L’errore di fondo - ha ribadito - è sganciare la Falange Armata da tutto quello che è successo negli anni 90 in Italia. Tutti i fatti di sangue che hanno accompagnato verso la Seconda Repubblica”.
In questo contesto, ha sottolineato Spinosa, “la centralità delle alleanze carcerarie è il motore di fondo. La Falange Armata in questo progetto a più teste riesce ad operare sin dall’inizio una capacità di intervento in vari territori dello Stato proprio partendo dalle saldature endo-carcerarie”. Su questo aspetto rientra a pieno titolo la storia di Umberto Mormile, l’educatore carcerario ucciso in un agguato l’11 aprile 1990, la cui storia si inserisce nel quadro di accordi al di fuori di qual si voglia regolamentazione che sono avvenute fra amministrazione penitenziaria e servizi segreti. Umberto Mormile che, come ha detto una delle referenti delle Agende Rosse, “è l’incarnazione del principio di rieducazione della pena di cui all’articolo 27 della Costituzione”. A parlare di Umberto Mormile è stato il fratello Stefano che da 30 anni spende tutte le sue energie alla ricerca di verità e giustizia sulla morte di suo fratello. Un delitto nel quale, nonostante le condanne dei rei confessi Nino Cuzzola e Tonino Schettini e dei mandanti Domenico e Antonio Papalia, questi ultimi ritenuti, come ha sottolineato Repici, uomini della falange Armata, ancora oggi permangono delle ampie zone d’ombra.
“Il 41bis serve a rendere impermeabile le comunicazioni e le relazioni di boss mafiosi con l’esterno. - ha affermato Stefano Mormile rispondendo a una domanda di Alessandra Antonelli - Oltre alla corrispondenza probabilmente efficaci sono anche anelli di congiunzione. Nel senso che se da una parte ci sono le carceri e dentro di esse ci sono coacerbi di poteri criminali all’esterno ci sono poteri affaristici, l’anello di congiunzione potrebbero essere coloro che con accordi illegali entrano ed escono dal carcere. Che sono i servizi segreti. La storia di Umberto Mormile entra in questo quadro. - ha spiegato - E come quella vicenda tante altre si sono verificate, e tante altre potrebbero esserci state ma non lo sappiamo perché non sono emerse”. In questo senso, riguardo alle interferenze dei servizi di sicurezza negli ambienti carcerari, le relazioni che fa il Copasir (Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) sui servizi segreti “fanno rizzare i capelli perché contengono delle risultanze su irregolarità molto gravi che però poi non danno luogo a nulla. Il Copasir dovrebbe avere anche la funzione di censura dovrebbe cambiare lo stato di cose e mettere in atto un percorso virtuoso. Si da quasi per scontato che i servizi commettono azioni illegittime, magari alla fine lo fanno per la sicurezza nazionale ma ce lo spiegassero, ci spiegassero qual è l’approdo di queste strategie”. Tornando invece all’omicidio del fratello Umberto, Stefano Mormile ha affermato che essendo una persona “incorruttibile andava eliminato perché non rivelasse quella pratica indecente dei servizi che entravano in carcere e facevano accordi con i boss e poi uscivano indisturbati. Accordi dai quali traevano vantaggi sia i boss che i servizi”.
Infine, sulla prospettiva di una nuova indagine sulla morte del fratello, Stefano Mormile ha concluso: "Da un anno a questa parte la Dda di Milano sta indagando per scoperchiare quel secondo livello che ritengo sia il più importante. Perché Umberto è vittima di mafia, sì, ma in realtà Umberto è una vittima di mafia di Stato. I servizi sono apparati dello stato, così come il Copasir, che dovrebbero tutelare tutti quanti noi. E invece partecipa e si rende complice a omicidi, a stragi e fatti criminosi. Ciò significa che anche lì si annida la mafia”.

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