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di AMDuemila
Oltre duecento anni di carcere, con pene che vanno da quattro anni e otto mesi a 20 anni di reclusione. Si è concluso così il processo celebrato col rito abbreviato a 18 appartenenti del clan Laudani di Paternò. Ad emettere la sentenza è stato il Gup di Catania, Loredana Pezzino.
Tra i condannati vi è anche il capomafia, Salvatore Rapisarda, a cui è stata inflitta una pena a sei anni in continuazione del reato. Secondo l’accusa, dava ordini nonostante fosse detenuto in carcere. Secondo la pm Antonella Barrera, che ha rappresentato l’accusa in aula, ciò era possibile grazie al suo luogotenente, Alessandro Giuseppe Farina (condannato a 20 anni) che si avvaleva della collaborazione di sua moglie, Vanessa Mazzaglia (12 anni e un mese), di suo suocero, Antonino Mazzaglia (12 anni e un mese), e di suo nipote Emanuele Farina (13 anni).
L’operazione, denominata "En Plein 2", aveva portato, nel giugno 2018, all’esecuzione da parte dei carabinieri del comando provinciale di Catania e della compagnia di Paternò, di 19 ordinanze di custodia cautelare. Durante le indagini, coordinate dalla Dda di Catania e dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo, è stato confermato il ruolo di vertice del Rapisarda, nonostante la detenzione, che, sostiene l'accusa, aveva conferito l'incarico di responsabile ad interim per il territorio di Paternò al nipote Vincenzo Marano, condannato a 20 anni di reclusione, che gestiva le "piazze di spaccio" e la cassa comune della cosca assicurando il mantenimento degli associati detenuti.

Foto © Imagoeconomica

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