di Karim El Sadi - Foto e Video
Giuseppe Lo Bianco a Jesi presenta "Depistato", scritto con Sandra Rizza
“Questo è un paese in cui i depistaggi sono stati una costante. L’Italia ha una storia che è anche una storia criminale e questa è una consapevolezza di cui dobbiamo prendere atto”.
E’ iniziata con queste forti parole, precedute dai saluti del fondatore del movimento Agende Rosse Salvatore Borsellino, la presentazione del libro “Depistato” (ed. Chiarelettere) di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza tenutasi lo scorso sabato 18 gennaio presso la Galleria degli Stucchi di Palazzo Pianetti di Jesi. Il giornalista, rispondendo alle domande della coordinatrice del movimento Agende Rosse di Ancona e Provincia Alessandra Antonelli, ha ripercorso le fasi dell’attentato di via d’Amelio e del depistaggio posto in essere immediatamente dopo lo scoppio della Fiat 126, di cui parla il libro, descritto dai giudici di Caltanissetta del processo Borsellino Quater come “il più grave della storia della Repubblica Italiana”. “Il depistaggio di via d’Amelio, come dice la sentenza, è il più grave della storia italiana perché per la prima volta non sono solo state deviate e inquinate le indagini - ha affermato Lo Bianco - ma soprattutto perché si è costruito a tavolino un falso colpevole al quale è stata attribuita tutta la responsabilità. E sulla base di questo teorema, totalmente campato in aria, si è portato alla sbarra parte dei delinquenti mafiosi non responsabili della strage per coprire i veri colpevoli e soprattutto i veri mandanti”. Proprio per questo, secondo l’autore, non si è ancora raggiunta la verità su quanto accaduto in quei 57 giorni che hanno separato la bomba di Capaci da quella di via d’Amelio. Né su quanto di misterioso è accaduto nel corso dei mesi e degli anni a seguire con le prime indagini e i primi processi. Il caso della strage di via d’Amelio, infatti, ha aggiunto Lo Bianco, “come tutte le altri stragi italiane, si risolve se si riesce a individuare la matrice”. Quindi “se si scopre chi ha deciso che Falcone e Borsellino dovessero saltare in aria”. In questo senso tuttavia la “risposta ricevuta finora è minimalista - ha spiegato il giornalista - perché si è colpita la mafia militare, che c’entra anche in questi episodi, ma non è riuscita a sfiorare i livelli successivi”. I così detti mandanti esterni, appunto.
L’ombra dei servizi
Riavvolgendo il nastro della storia Giuseppe Lo Bianco ha riportato al pubblico alcune delle varie e sinistre anomalie registrate attorno al caso Borsellino. “La prima anomalia in via d’Amelio la riscontriamo un minuto dopo il botto”, ha detto Lo Bianco. Sulla scena “si sono presentati subito agenti dei servizi segreti provenienti da Roma”. Un fattore, questo, “acclarato a vari livelli”. “Ma come facevano ad essere lì in così poco tempo?” si è chiesto il giornalista. In ogni caso è proprio agli uomini del Sisde che è stato affidato, “contra legem”, il delicato lavoro d’indagine della polizia giudiziaria e “quindi allo stesso Bruno Contrada”. L’ex numero tre del Sisde, e qui emerge a detta dell’autore un’ulteriore anomalia, all’epoca “era sospettato dalla procura di Palermo che poi lo arresterà il 23 dicembre 1992 per concorso in associazione mafiosa”. Quindi mentre “la procura di Palermo indagava Contrada questi viene incaricato di coordinare le indagini giudiziarie sulla strage dalla procura di Caltanissetta o da un piccolo nucleo di essa perché - ha precisato - non tutti i pm ne erano a conoscenza”. L’affidamento del coordinamento delle indagini sulla morte di Borsellino al Sisde “è il paradosso dei paradossi”, ha commentato Lo Bianco, che sempre sulla “massiccia presenza dei servizi” in via d’Amelio ha detto che la “si può spiegare soltanto per l’altissima valenza istituzionale che questa strage riveste”.
Il caso Scarantino
Durante la presentazione del libro “Depistato” l’autore ha parlato di un tema chiave relativo al depistaggio sulla strage di via d’Amelio affrontato soprattutto nell’ultimo processo “Borsellino Quater”: il caso Scarantino e il ruolo dei servizi nella sua falsa testimonianza.
Lo Bianco ha spiegato in sala dell’esistenza di una nota del Sisde datata 13 agosto 1992 che indica “alcuni elementi che costituiscono il nucleo di informazioni sulle quali si è costruita la versione fasulla di Scarantino. Elementi che tornano anche nella versione del pentito vero Gaspare Spatuzza e che erano evidentemente in possesso già allora dei servizi segreti e la cosa seria sulla quale va approfondito è che Gioacchino Genchi (l’ex funzionario di polizia ed esperto informatico, ndr) - ha aggiunto Lo Bianco - aveva subito imboccato una pista precisa che poteva portare a livelli più alti”. Il giornalista facendo una ricostruzione puntuale di quei giorni ha riportato le parole di Genchi rilasciate in aula quando “raccontò di un duro scontro alla squadra mobile tra lui e Arnaldo La Barbera (ex capo della squadra mobile di Palermo, ndr) a seguito del quale Genchì se ne andò sbattendo la porta”. Il motivo dell’accesa discussione che provocò la fine della collaborazione tra i due riguardava “la direzione che dovevano prendere le indagini” su via d’Amelio, ha spiegato il giornalista. “A un certo punto Genchi - ha continuato la ricostruzione del fatto Lo Bianco - dice che La Barbera lo mise di fronte ad un “aut aut”: “Arrestiamo Scotto” (Gaetano, ndr), che era un altro dei falsi componenti del commando - poi assolto - io divento questore e tu dirigente”.
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Secondo Lo Bianco Arnaldo La Barbera “è sicuramente il dominus del depistaggio perché è lui il regista del gruppo Falcone e Borsellino ed è grazie a lui che negli anni si sono potute allontanare le responsabilità vere sulla strage non solo esecutive ma anche quelle dei mandanti per invece caricare tutto il peso su un personaggio che con la mafia non aveva mai avuto a che fare”. Proseguendo la ricostruzione della vicenda Giuseppe Lo Bianco ha parlato di quando Vincenzo Scarantino dal carcere di Pianosa, in cui riceveva torture psicologiche, “improvvisamente chiede di essere sentito”. Ad assistere alla sua prima fase di collaborazione “il gruppo Falcone e Borsellino ha mandato un suo uomo” in quella circostanza vennero effettuati “dieci colloqui investigativi autorizzati dai magistrati di Caltanissetta”. Durante quei colloqui Scarantino, ha spiegato Lo Bianco, “confessa tutta una serie di panzane che nella conferenza stampa organizzata il 19 luglio del 1994 viene individuata come la soluzione del caso di via d’Amelio”. Ma per quale motivo si è vestito il pupo? E qual è la ragione di questa frenesia per la soluzione del caso? Secondo il giornalista è probabile “che si richiedeva una soluzione tempestiva del caso sull’attentato per dare una risposta all’opinione pubblica ma - si è chiesto il giornalista - può un meccanismo bestiale di mistificazione clamorosa di questo tipo, con l’ascesa in campo di servizi segreti e funzionari di polizia infedeli e magistrati, chiamiamoli “distratti”, essere giustificato con l’ansia di qualche funzionario di polizia che grazie alla soluzione del caso avrebbe potuto ambire, come poi accaduto, a una luminosa carriera?”. “Questa è una domanda che dobbiamo porci. - ha aggiunto - Perché le sentenze hanno accertato del più clamoroso depistaggio della storia e che Scarantino è stato indotto a mentire. Per lo sviluppo successivo di questa affermazione ci sono tre addetti ai lavori sotto inchiesta in un nuovo processo a Caltanissetta. Anche per loro la domanda deve restare inalterata: può quest’ansia di cui abbiamo parlato giustificare una macchinazione così clamorosa?”
La sentenza Mannino
Verso la fine della serata Lo Bianco, rispondendo a una domanda della coordinatrice delle Agende Rosse Alessandra Antonelli, ha parlato della recente sentenza di assoluzione dei giudici della Corte d’Appello di Palermo per l’ex ministro Calogero Mannino. “La sentenza ha confermato quella di primo grado anche se non ha escluso i fatti, cioè la trattativa, ma ne ha assolto il principale protagonista secondo la ricostruzione del processo Trattativa. I due processi non sono comparabili - ha aggiunto Lo Bianco - il processo trattativa Stato mafia è durato 5 anni e si è svolto a dibattimento con decine e decine di testimoni e ha raccolto centinaia di atti processuali e quindi ha contribuito a formare il libero convincimento del giudice. Il processo al senatore Mannino si è svolto in rito abbreviato e quindi allo stato degli atti, pertanto i giudici hanno sicuramente raccolto un materiale processuale inferiore per poter formare il loro convincimento. C’è poi un altro elemento, ma questo è un mio parere personale, che in me ha destato perplessità cioè che i giudici di questa sentenza di appello hanno ritenuto provato che Borsellino fosse a conoscenza della trattativa perché gli era stato detto dagli ufficiali del Ros. Questo dato nel processo non c’è - ha detto il giornalista - perché gli stessi ufficiali non lo hanno mai rivelato. Anzi, hanno detto che nell’incontro del 25 giugno parlarono di tutt’altro ovvero di mafia e appalti”. Sempre parlando di processi sulla strage di via d’Amelio, inglobando anche quella di Capaci e quelle avvenute in continente nel 1993, Lo Bianco ha spiegato che vanno “lette in una chiave comune”. Dalla sentenza del Borsellino Quater “si evince che non è escluso che tra i moventi della strage di via d’Amelio ci sia la trattativa Stato mafia. Siamo storicamente dentro quel periodo, le vicende di Paolo Borsellino si intersecano con il colloquio avviato da Vito Ciancimino con il Ros nel tentativo di far cessare le stragi. Quindi non solo da un punto di vista temporale e storico possiamo collegare le due vicende ma c’è una sentenza che non lo esclude totalmente”.
Ricerca della verità e il ruolo dell’informazione
In ultima battuta il giornalista dialogando col pubblico ha parlato dello stato dell’arte della ricerca della verità sulle stragi avvenute in Italia dal dopoguerra ad oggi, e del ruolo dell’informazione nel contribuire a perseguire questo obiettivo.
“Io sono sempre stato convinto che la verità sulla strage di via d’Amelio non la otterremo se la consideriamo come un singolo episodio. - ha detto Lo Bianco - Io sono convinto che riusciremo a capire qualcosa di più se cominciamo a ragionare sul filo che unisce tutte le stragi di questo Paese a partire dall’immediato dopoguerra con la strage di Portella della Ginestra. L’Italia ha una storia che è anche criminale, se non riusciamo a decifrare le radici della nostra storia non riusciremo ad arrivare alla verità. Noi dobbiamo conoscere per poter giudicare”.
In questo senso, quindi, per quanto concerne il ruolo dell’informazione Lo Bianco ha confessato che “in Italia negli ultimi anni c'è stato un concentrato di distrazioni e omissioni. Bisogna dirlo con chiarezza. Il gap informativo, in numerosissimi cittadini italiani, di vicende successe in questi anni si deve a un giornalismo totalmente inadempiente. L’informazione su questi temi è stata affidata solo a pochi colleghi di buona volontà che non si sono fermati alla formuletta che deve crocifiggere o riabilitare un personaggio, ma è andata a cercarsi le carte processuali e le sentenze di archiviazioni, gli archivi per cercare di capire e far capire cosa è realmente successo”.