di Marta Capaccioni
“Il codice d’onore prima di tutto” dicevano. Un codice che nei suoi distorti principi etici e morali non ha mai guardato in faccia a nessuno, nemmeno a donne e bambini. Proprio così, i bambini.
Il 7 ottobre 1986 un giovanissimo cuore smise di battere, improvvisamente arrestato da un colpo di pistola. Claudio Domino si trovava davanti alla cartolibreria gestita dalla madre, Graziella Accetta, in via Fattori, nel quartiere palermitano di San Lorenzo. Uno sconosciuto lo chiamò per nome e Claudio, come spesso fanno i bambini, gli dette fiducia e si avvicinò. Aveva 11 anni e quel giorno forse avrebbe solo voluto rincorrere gli amici con cui stava giocando. Il nemico di Claudio fu tanto disgraziato da avere paura di un bambino e tanto maledetto da sparargli un gelido colpo in fronte. Il suo corpo cadde a terra, facendo poco rumore, e non si rialzò.
La morte di un uomo giusto è un reato che dovrebbe far infuriare piazze e città. La morte di un bambino e della sua innocenza è un eccidio che dovrebbe sconvolgere, commuovere e poi mobilitare intere Nazioni.
E allora perché la storia del piccolo Claudio Domino e delle altre 125 piccole vittime di mafia? Perché il popolo non ha urlato i nomi di quelle creature fino allo stremo si è dimenticata così in fretta?
Perché come sempre accade nella storia, ci sono alcune morti meno meritevoli di essere ricordate, soprattutto quando nell’elenco dei sospettati compare la parola “mafia”.
In quel periodo si stava svolgendo il maxi-processo nell’aula bunker di Palermo, i cui lavori di pulizia erano gestiti in appalto dal padre di Claudio, titolare dell’impresa. Quel processo istruito dai magistrati Falcone e Borsellino, che segnò la storia della lotta alla mafia e che inflisse 360 condanne.
Durante il dibattimento, Giovanni Bontade, fratello di Stefano, capomafia di Villagrazia di Carini, negò ogni responsabilità di Cosa nostra, ammettendo indirettamente, e forse incoscientemente, l’esistenza dell’organizzazione mafiosa: “Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare”. Un’affermazione che da lungo tempo in tanti stavano aspettando.
La mafia uccide e ha sempre ucciso per la sua sopravvivenza. Ma davanti alla morte di Claudio, non si può fare altro che chiederci quale pericolo potesse mai rappresentare un bambino per quel grande potere criminale, che da ormai due secoli governa e manovra indisturbato le sorti del nostro paese. Furono sollevate diverse ipotesi e infine, alcuni anni dopo il maxi-processo, il collaboratore di giustizia Giovanbattista Ferrante rivelò che la colpa di Claudio era stata quella di aver visto confezionare alcune dosi di eroina in un magazzino. Forse la colpa più grande di Claudio era stata quella di essere nato nel paese sbagliato.
E ancora, Salvatore Cancemi, altro collaboratore di giustizia legato a Cosa nostra, deceduto nel 2011, rivelò che Totò Riina ordinò indagini interne per scoprire i responsabili dell’eccidio di Claudio. Lo stesso Ferrante infatti dichiarò di aver ammazzato, sotto direttiva di Giovanni Brusca, il mandante dell’uccisione del bambino: parliamo di Salvatore Graffagnino, proprietario del bar vicino al luogo dell’omicidio, che sotto tortura avrebbe confessato di aver incaricato un tossicodipendente dell’esecuzione.
Al di là delle rivelazioni di Ferrante, non è stata fatta piena luce su quanto accadde quel 7 ottobre a Claudio e soprattutto non conosciamo ancora chiaramente l’identità dell’uomo che premette il grilletto.
Un altro nome ci proviene dalle parole del confidente Luigi Ilardo, che disse al colonnello dei ros Michele Riccio, che quel giorno, nel quartiere palermitano di San Lorenzo, vi sarebbe stato “faccia da mostro”. Con questo nominativo era infatti noto alle cronache Giovanni Aiello, poliziotto italiano con il viso sfigurato da un colpo di fucile.
"Ilardo mi disse: - ricorda l'ex militare - parlerò di determinati episodi come la morte di Pio La Torre, del presidente Mattarella, di Claudio Domino, del poliziotto ucciso insieme alla moglie, perché dietro ci sono le Istituzioni. E mi fece riferimento - aveva detto Riccio - che proprio per la morte di Domino i suoi contatti di Cosa Nostra palermitana gli avevano riferito che ci fu la ricerca di un personaggio che doveva appartenere alle istituzioni italiane, il quale aveva fatto un po' da supervisore e, forse aveva anche avuto qualche parte attiva in questi attentati, specialmente in quello di Domino che aveva colpito molti esponenti di cosa Nostra che non erano concordi con questi omicidi. Per cui - aggiunse il colonnello - si sarebbero mossi alla ricerca di questo personaggio, che Ilardo allora mi descrisse come alto, magro e con in viso una voglia che lo deturpava. Sinteticamente mi disse 'faccia da mostro’".
A questo proposito il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, detto "il Nano", lo scorso 18 Aprile 2019, è intervenuto in videoconferenza davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria nell’ambito del processo ‘Ndrangheta stragista, e ha risposto alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Lo Giudice ha richiamato alla memoria il nome di Giovanni Aiello, non solo rispetto alla strategia stragista degli anni ’92 e ’93, ma anche rispetto all’omicidio del piccolo Claudio.
"Mi raccontò dell’omicidio di un bambino in Sicilia il cui padre lavorava in un’aula bunker - ha detto Lo Giudice raccontando i suoi incontri con Aiello - mi parlò dell’omicidio di Ninni Cassarà, di quello di Nino Agostino. Mi parlò anche di una bomba messa a Trapani, dove morirono due bambini e una donna e rimase illeso il magistrato Carlo Palermo".
Insomma, ancora una volta, riappare l’altra faccia di quel potere criminale, responsabile e complice allo stesso tempo, degli eccidi, delle ingiustizie, dei mancati processi e dei depistaggi che hanno macchiato il nostro paese per decenni, e a cui tuttora non è stata messa la parola fine.
Ma già tutto questo non bastava. Perché ciò che spaventa di più non è il nemico che hai davanti, ma il vuoto che si forma dietro di te quando arriva il momento di pretendere giustizia e di puntare il dito contro i responsabili. “Ti aspetti dalla società la solidarietà e la comprensione. - disse Antonino Domino, padre di Claudio durante la trasmissione Altroparlante, nell’ottobre del 2017 - Questa affettuosità, di solito, la si esprime nei momenti più cauti della tragedia. […] Lo sdegno, l’urlo del popolo: assassini! E poi tutto cade nel dimenticatoio e diventa una stanza buia”.
È nostro dovere entrare in quella stanza e riaccendere la luce, perché il ricordo di Claudio e della sua innocenza viva sempre dentro ognuno di noi e non si spenga mai più.
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