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di Marta Capaccioni
49 anni fa, una penna attenta, precisa e veloce aveva oltrepassato l’immaginaria linea di demarcazione che separava la verità dei fatti da pagine già cancellate di storia. Purtroppo alle 21.10 del 16 settembre 1970 un autore e la sua penna scomparvero e di loro non si seppe più nulla.

Mauro De Mauro, cronista del quotidiano L’Ora, aveva parcheggiato davanti a casa in via delle Magnolie al civico 58 di Palermo, dove lo aspettavano la figlia Franca e il fidanzato Salvo, felici per le imminenti nozze. Ma Mauro tardava a raggiungerli. In quei pochi minuti di attesa fu possibile per tre uomini senza nome materializzarsi dentro la Bmw del giornalista. Poi una voce nell’ombra gridò “Amuninni” (“andiamocene”). L’asfalto venne consumato dallo stridore delle gomme. Franca vide la macchina sfrecciare via, il padre al volante concentrato nella strada. Nessun cenno di saluto, solo un improvviso silenzio. Mauro De Mauro era appena sparito nel nulla e a casa non avrebbe più fatto ritorno.
Passavano le ore, nessuno considerava l’ipotesi di un sequestro, e tantomeno immaginava la morte del giornalista. Altre volte si era assentato per lungo tempo, anche per tutta la notte, e specialmente in quel momento aveva in mano un colpo grosso, una di quelle storie che segnano la carriera, ed era probabile si fosse dovuto allontanare in fretta per nuove tracce da seguire.
Purtroppo quella volta era diversa dalle altre. Il primo a parlare della sparizione di De Mauro fu L’Ora, lo stesso giornale per cui il giornalista scriveva da 11 anni, con un’edizione straordinaria dal titolo “aiutateci”.
Ma chi erano quegli uomini? Da chi e perché erano stati mandati dal cronista palermitano?

Domande che trovano come risposta solo un grande black out, fatto di silenzio, ricatti e depistaggi. Un vuoto di verità che riguarda non solo il movente del sequestro, ma anche il luogo in cui fu ucciso o abbandonato il corpo di De Mauro. Un altro caso di sparizione che si aggiungeva ai già trenta casi contati dal 1960 al 1970: tutti in silenzio, tutti senza tracce, tutti da un giorno all’altro. Come ricordò il fratello minore Tullio, Mauro non era affatto preoccupato e non aveva ricevuto alcuna minaccia o chiamata anonima. Anzi, al contrario, era entusiasta e soddisfatto per la storia su cui stava lavorando. Si trattava di un incarico particolare, ricevuto dal regista Franco Rosi, per un film che aveva intenzione di fare. Il protagonista era Enrico Mattei, quel presidente dell’Eni morto il 27 ottobre del 1962, in uno schianto aereo a Bascapè, al tempo catalogato come incidente. Fu proprio De Mauro a seguire il discorso politico che Mattei tenne nel piccolo paese in provincia di Enna, a Gagliano Castelferrato, poco prima di morire. E ci tornò dopo la caduta dell’aereo. “Lei casca bene - disse Mauro al regista - il mio giornale infatti mandò a Gagliano proprio me per raccogliere le impressioni della popolazione dopo la morte di Mattei”.

Il caso Mattei aveva lasciato aperti vari interrogativi e De Mauro aveva confidato ad un collega di avere tra le mani uno scoop che avrebbe fatto tremare l’Italia. L’inchiesta sul sequestro e l’uccisione del giornalista durò tre mesi e mezzo. E poi? Più nulla, per 36 anni. Il caso fu riaperto dalla Questura di Palermo nel 2001 e il processo iniziò nel 2006.
Il sostituto procuratore della Dda di Palermo, Sergio De Montis, nella sua requisitoria alla fine del processo palermitano parlò di “corto circuito informativo” dei collaboratori di giustizia. Quest’ultimi non furono concordi né sul luogo in cui fu abbandonato il corpo di Mauro né sul movente del delitto. Per Gaetano Grado, ex boss di Santa Maria di Gesù, Mauro fu seppellito in aperta campagna e coperto dalla calce per decomporre più facilmente i resti, per riesumarlo successivamente e distruggere tutto con l’acido.
Ma non furono soltanto le confuse informazioni dei collaboratori di giustizia la causa del vuoto giudiziario, perché questa fu una lunga storia fatta di false testimonianze, di bugie da parte degli investigatori, di un perverso gioco di depistaggi e ricatti, di un affossamento deciso dagli apparati, a cui collaborarono sia carabinieri che pezzi della questura.

aiutateci l ora

Un delitto complicato, un vero e proprio giallo: troppi moventi, troppi mandanti occulti, nessun corpo su cui piangere.
Oltre alla pista sulla morte di Enrico Mattei, l’Arma indagava sul movente della droga e nel 2001, secondo le dichiarazioni del pentito boss di Altofonte, Francesco Di Carlo, venne aperta un’altra pista che conduceva al golpe, tentato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, dal principe Junio Valerio Borghese.
Il pentito Francesco Mannoia si limitò a dire che “Non c’era solo l’interesse di Cosa nostra palermitana a eliminare Mauro De Mauro, l’interesse si allargava al triumvirato composto da Stefano Bontate, Salvatore Riina (sostituto di Luciano Liggio) e Gaetano Badalamenti. Ma anche cosa nostra americana”.
Ormai sembra impossibile ricostruire la verità dei fatti. Gli indizi c’erano, e tanti. Adesso, non rimane altro che amarezza per una morte che, come succede spesso quando si disturbano certi sistemi di potere, rimane senza giustizia.

Il processo iniziò nel 2006 e vide come solo imputato, l’unico sopravvissuto, il boss mafioso Totò Riina. Nella sentenza di primo grado i giudici affermarono che “la causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè". E poi ancora: “Nella sceneggiatura approntata dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell’ipotesi dell’attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
Successivamente nel 2015, a differenza di quanto contenuto nella predetta Sentenza di primo grado, la Cassazione confermò il giudizio dei giudici d’appello (sentenza del 27 giugno 2014) che dichiaravano la difficoltà, se non l’impossibilità, di “distinguere con certezza i fatti come realmente accaduti”. E una delle cause fu, come si legge nella sentenza, il “sistematico depistaggio di soggetti interessati a dissolvere nel nulla ogni elemento utile a ricostruire la vicenda”.
Insomma, il caso De Mauro lascia ancora oggi tante incertezze su ciò che successe davvero. Resta il fatto che il collegamento con la morte di Mattei c’era, la busta gialla dove De Mauro aveva appuntato le notizie e le prove salienti di quella storia esisteva. C’erano elementi di connessione con Vito Guarrasi, avvocato e imprenditore italiano, con Nino Buttafuoco, politico e parlamentare nazionale ed europeo e con il senatore della Dc Graziano Verzotto. Ma non si è trovato nemmeno un colpevole.
E ancora, c’erano le bobine e la trascrizione della indiziante telefonata tra Guarrasi e Buttafuoco, esisteva il nastro con l’ultimo discorso di Mattei a Gagliano che Mauro ascoltava incessantemente nei giorni prima di morire ed esistevano le pagine di quaderno dove il nastro era stato trascritto dallo stesso De Mauro. Tutte prove che nel tempo scomparirono.

Il sistema di giustizia italiana non è riuscito, o forse non ha voluto, giungere alla conclusione per cui se c’è una vittima, c’è sempre anche un colpevole. Sicuramente De Mauro non ha deciso autonomamente di svanire nel nulla. L’epilogo dell’uccisione del giornalista Mauro De Mauro è stato l’assoluzione di Salvatore Riina, in primo grado nel 2011, in Corte d’Assise d’appello nel 2013 e in Cassazione nel 2015, con la formula “per non aver commesso il fatto”.
Mauro De Mauro e la sua penna rappresentavano un ostacolo, un imprevisto che avrebbe forse significato il fallimento di un sistema di potere fortemente connesso agli apparati dello Stato. E allora rivengono in mente le sue parole su quello scoop che avrebbe fatto tremare l’Italia.
49 anni dopo possiamo dire che il caso De Mauro si aggiunge, con amarezza, alla lista dei misteri che nasconde il nostro paese, quei misteri destinati a rimanere tali, chiusi per sempre in un cassetto.

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