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regeni giuliodi Davide de Bari
L’inchiesta romana: “Ci sono elementi che evidenziano il coinvolgimento dei servizi egiziani nel sequestro di Giulio”

Era la sera del 25 gennaio 2016 quando Giulio Regeni fu sequestrato al Cairo. Una settimana più tardi venne ritrovato senza vita, con il cadavere che fu lasciato sul ciglio della Desert road per Alessandria D’Egitto. Il corpo del ragazzo fu riportato in Italia dove poi l’autopsia decretò che venne tenuto in vita fino all’1 febbraio, subendo torture in momenti diversi, fino all’esecuzione avvenuta con una “separata e violenta azione contusiva sull’osso del collo”.
Sulla terribile vicenda la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta che nei mesi scorsi, nonostante i silenzi ed i depistaggii sollevati dal Cairo, ha portato ad importanti risultati quando lo scorso 4 dicembre il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco hanno messo sotto indagine cinque militari appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani: un generale, due colonnelli, un maggiore e un assistente. Soggetti che, secondo l’accusa, avrebbe sequestrato il giovane ricercatore italiano mentre si trovava in una stazione della metropolitana.
Si è arrivati a questi personaggi grazie a un rapporto elaborato dai poliziotti del Servizio centrale operativo e dai carabinieri del ROS (Raggruppamento operativo speciale) in cui è riassunto: “Quanto si è raccolto sul conto del generale Tabiq Sabir, del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, del colonnello Uhsam Helm e dell’assistente Mahmoud Najem, espressioni della National Security del Cairo, e del colonnello Athar Kamal Mohamed Ibrahim, all’epoca capo delle Investigazioni giudiziarie della capitale”. A loro carico “in concorso con altri soggetti rimasti ignoti”, ci sarebbero “elementi che ne evidenziano il coinvolgimento nel sequestro di persona di Giulio Regeni. Le cinque persone indagate sono le stesse coinvolte fin dalla viglia della scomparsa di Regeni, ovvero dalla denuncia del sindacalista-finto amico di Giulio, Mohamed Abdallah, membro della National security. Da questo sarebbe scaturita la decisione di inquisire i cinque militari egiziani.
Negli ultimi giorni, i magistrati romani si sono recati al Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) dove hanno spiegato, in seduta segreta, che la magistratura non è in grado di andare oltre. L’iscrizione nel registro degli indagati è solo l’inizio dell’indagine, ma la strada vede in fondo l’archiviazione. Questo si potrebbe evitare solo con una maggiore collaborazione delle autorità egiziane. In alternativa dovrebbe essere la Procura del Cairo a perseguire in patria le persone ritenute responsabili della scomparsa di Regeni, ma da quello che si è visto fino ad ora non sembra averne l’intenzione.
Proprio nei giorni scorsi la Procura di Roma ha aperto un altro fascicolo, contro ignoti, sulle pressioni ricevute al Cairo dal consulente egiziano della famiglia Regeni, il quale è stato convocato da appartenenti alla National Security per avere informazioni sul lavoro svolto dai legali italiani.

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Manifestazione presso la sede del Fnsi a favore di Giulio Regeni (© Imagoeconomica)


Ma non è solo la magistratura a muovere i propri passi. L’altra strada per ottenere “verità e giustizia” per Giulio Regeni è quella politico-diplomatica dove non sono più i magistrati, ma ben sì i politici, che devono stimolare o incoraggiare le autorità egiziane a indagare. Come prima mossa che però non ha prodotto frutti è stato il ritorno in Italia del nostro ambasciatore in Egitto a ferragosto del 2017. Non solo. Nemmeno le ripetute missioni dei rappresentanti del governo di Roma al Cairo. Il presidente Giuseppe Conte, insieme a Luigi di Maio e Matteo Salvini, sembrerebbe che abbiano ottenuto solo promesse senza seguito dal presidente egiziano Al Sisi, come anche quelle dell’ambasciatore egiziano al ministero degli Esteri Moavero.
Lo scorso agosto, il vice premier Di Maio aveva raccontato che Al Sisi gli disse: "Regeni è uno di noi". Dopo di questo a novembre il vice premier diede un ultimatum dicendo che se non sarebbero arrivate risposte "ne traremmo le conclusioni, tutto ne risentirà". Ma ad oggi le risposte non sembrano essere ancora arrivate. Il ministro dell'Interno Salvini si è detto fiducioso. “Continuiamo e continueremo a chiedere giustizia, non mi sono sentito preso in giro da Al Sisi - ha detto il vice Premier - Non fatemi fare il magistrato, conto sul buon lavoro dei magistrati italiani e di quelli egiziani”. Oggi a Fiumicello (UD), paese natale di Giulio, verrà ricordato dai suoi famigliari e dalle tante persone che insieme soprattutto chiedono verità e giustizia. “A chiedere la verità c’è una famiglia, prima di tutto, e c’è uno Stato. - ha detto il presidente della Camera Roberto Fico in un'intervista a “La Stampa” - Vado a Fiumicello anche per stare vicino a loro in questo momento per essere presente come terza carica dello Stato nel paese dove Giulio è cresciuto”.

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