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tribunale toghe1Masi: "Il processo mi darà la possibilità di dimostrare la verità"
di AMDuemila

I due marescialli che denunciarono gli ostacoli nella ricerca dei boss latitanti imputati per calunnia e diffamazione.

I marescialli dei carabinieri Saverio Masi, ex capo scorta del magistrato Nino Di Matteo ed anche teste al processo trattativa Stato-mafia (difeso da Claudia La Barbera), e Salvatore Fiducia (difeso da Antonio Ingroia) sono stati rinviati a giudizio per calunnia e diffamazione nei confronti di sette ufficiali dell’arma (Gianmarco Sottili, Francesco Gosciu, Michele Miulli, Fabio Ottaviani, Gianluca Valerio, Antonio Nicoletti e Biagio Bertodi difesi dagli avvocati Claudio Gallina Montana, Ugo Colonna, Basilio Milio ed Enrico Sanseverino). A disporre il giudizio davanti al giudice monocratico Marina Minasola è stato il gup Maria Teresa Moretti.
Nei confronti di Masi e Fiducia la Procura di Palermo, ieri rappresentata in aula dal pm Padova, in passato aveva chiesto l’archiviazione così come per gli ufficiali da loro accusati di aver “frapposto continui ostacoli nel corso di indagini mirate alla cattura di super latitanti”. Il Gip Vittorio Alcamo, però, lo scorso aprile ha ritenuto di disporre l’imputazione coatta con la stessa ordinanza con cui archiviava le denunce presentate nel 2013 dei due Carabinieri nei confronti dei loro superiori, comunque senza parlare di inattendibilità delle dichiaraizoni. Secondo il Gip “nessuno dei pubblici ufficiali sentiti è stato in grado di fornire un avallo alle propalazioni di Masi” ma nel documento di richiesta di archiviazione vi sono le dichiarazioni del generale Nicolò Gebbia, oggi in pensione, che dice di essersi accorto di essere stato “preso in giro e condotto per il naso verso direzioni che non erano quelle che avrebbero potuto assicurare alla giustizia i principali latitanti di mafia”, alle dichiarazioni di una decina di ufficiali e sottufficiali dei carabinieri che hanno parlato di una serie di fatti che hanno impedito di svolgere adeguate indagini.
Tra i vari episodi raccontati da Masi, il maresciallo aveva parlato degli appostamenti in un casolare per individuare Provenzano, nella disponibilità di alcuni soggetti ritenuti vicini al boss corleonese, spiegando il suo intento di mettere sotto osservazione l'edificio con una telecamera. Cosa che non sarebbe stata permessa e in seguito, quando l'inchiesta fu portata avanti insieme al Ros, non si riuscì nemmeno a piazzare delle microspie. Mentre in un'altra occasione, sempre prima dell'arresto di Provenzano, un capitano dei Carabinieri avrebbe detto a Masi di non insistere sulla cattura del boss di Corleone. Da parte sua, Fiducia aveva poi dichiarato di aver presentato, nell'ambito delle indagini su Provenzano e Messina Denaro ma in un filone investigativo separato da quello del maresciallo, più di una relazione poi ignorata o depistata. Gli episodi di cui aveva parlato risalgono al periodo tra il 2001 e il 2004 quando, a un passo dalla cattura di "Binnu", avrebbe ricevuto inspiegabili ordini di non proseguire le indagini. Ordini che il luogotenente si sarebbe sentito ripetere nel 2011, quando era impegnato nella ricerca del covo del boss latitante Messina Denaro.
La Procura, che nella richiesta di archiviazione aveva escluso per Masi e Fiducia la sussistenza del reato di calunnia non rinvenendo nelle loro accuse l'elemento soggettivo del reato, non ha mai parlato di falsità per le dichiarazioni dei due militari e parzialmente aveva riscontrato un episodio riferito, già prescritto, riferito al mancato sequestro di un computer durante la perquisizione a casa dell'ex consigliere provinciale Udc Giovanni Tomasino.
Di questi fatti si tornerà a parlare ora in questo nuovo processo che penderà il via il prossimo 20 giugno.
Alla luce di questi elementi, anche paradossali, è forte la sensazione di essere di fronte all’ennesimo procedimento “punitivo”. Come a dire, “colpirne uno per educarne cento”. Già in passato vi sono state vicende quantomeno “anomale” come la condanna in Cassazione per falso materiale e tentata truffa.
Una vicenda, quella, che traeva origine da una contravvenzione di 106 euro, elevata dalla Polizia Stradale a Saverio Masi il 19 gennaio 2008. In quella data il maresciallo si trovava in servizio con un’autovettura privata per svolgere attività di polizia giudiziaria ed era intento a raggiungere un informatore che lo aveva contattato sollecitando un incontro urgente.
In quel processo non entrarono cinque relazioni di servizio, depositate invece al processo che ha visto l’assoluzione di Sottili per diffamazione a Masi, in cui si attesta che il maresciallo ed altri investigatori del medesimo reparto, utilizzarono una Renault 4 intestata al fratello dello stesso Masi per operazioni di polizia giudiziaria.
Sempre a Roma è in corso il processo per diffamazione (praticamente per la stessa denuncia che viene contestata a Palermo) nei confronti di otto giornalisti (Sigfrido Ranucci, Dina Lauricella, Sandra Rizza, Giuseppe Lo Bianco, Antonio Padellaro, Sandro Ruotolo, Walter Molino e Michele Santoro) Saverio Masi, Salvatore Fiducia e l’avvocato Giorgio Carta. Nei loro confronti avevano sporto denuncia gli ufficiali dei Carabinieri Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca dopo una conferenza stampa.
Dopo l'ultimo rinvio a giudizio lo stesso Masi ha commentato: "Il processo che avrà inizio il 20 giugno mi darà la possibilità di dimostrare la verità, quella da troppi decenni occultata, sebbene non fosse questa la strada che mi sarei aspettato. A chi attende di veder passare anche il mio cadavere sul fiume, dico di avere fatto sempre, fino in fondo ed esclusivamente il mio dovere di Carabiniere e di Uomo, a differenza di chi oggi non ricorda o non vuole ricordare.  Ho sempre dormito sonni tranquilli e continuera' ad essere cosi poiché  sono fermamente convinto che questo processo sarà un’occasione importante per far luce su fatti molto rilevanti e su pagine buie della storia del nostro Paese. Una storia che riguarda tutti noi. Una verità che tutti hanno il diritto di conoscere".

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