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roma bruciadi Pietro Orsatti
Anticipazione dal libro Roma Brucia di Pietro Orsatti in uscita in libreria il 29 aprile 2015 per Imprimatur editore.

Dal capitolo 1 “Ecce Roma”

Violenta, estranea, incattivita. Roma, anno domini 2015. Città di furbi, complici, vittime e carnefici.
Popolata da quasi cinque milioni di fantasmi, ostaggi del sistema di potere che l’ha gestita fino a oggi solo per garantire a qualsiasi costo una governabilità ormai impossibile. Tutti insieme nel girone infernale gestito da una folla di omini de panza. Si alza il sipario sull’ultima e insopportabile messa in scena di una capitale europea che fa finta di stupirsi (madavero?) quando l’osceno ricettacolo di interessi politici, privati e criminali viene sbattuto lì, in prima pagina. Prima niente, mi raccomando. Prima di Buzzi e Carminati e della folla immensa di soci e complici, la mafia a Roma nun c’era, nun c’è mai stata: stamo a scherza’? Nessuno ha voglia di scherzare. Anche perché di contare morti per strada, cantieri fantasma, appalti truccati, servitori dello Stato corrotti, interessi innominabili di uomini degli apparati dello Stato, non ci siamo stancati. Proviamo nausea semmai, stanchezza no.

Nausea nel raccontare questa estate di veleni, minacce e menzogne. Pagine e pagine di atti freddi come lame affondate nel corpo molle di Mamma Roma. Ti svegli la mattina, sfogli le agenzie e le pagine dei giornali e aggiorni la lista degli indagati, arrestati, sospettati, sputtanati. Migliaia di pagine, appunti, immagini. Talmente tante parole e fatti e nomi che il romano medio non riesce neanche ad assimilarli. E ancor meno il resto degli italiani. Distanti. Estranei. Schifati.

Ecco allora il luogo comune che annienta ogni tipo di ragionamento: so’ tutti uguali, tutti ladri. Ma non basta definire e declinare la lista dei ladri, dei corrotti, dei furbi. Perché Roma è in mano alla mafia. Da decenni. Ma quella parola, mafia, sembra impronunciabile. Perfino ora che compare, associata al nome della Capitale, nei titoli dei giornali di mezzo mondo. Apre scenari, quel nome, che il cittadino non riesce ad ac cettare. Mafia è cosa definitiva che ti pone fuori perfino da una logica che, anche se aberrante, ritiene ormai normale e perfino inevitabile che la vita pubblica del Paese sia gestita dai soliti ladri e furbi di turno. Da Mani pulite alle mazzette per quell’appalto o quell’altro, dagli scambi di favori ai regali, dagli eterni e indistricabili conflitti di interessi, dal favore da chiedere per aver garantito il tuo diritto, dalla “stecca” che dai solo per avere la possibilità di sopravvivere: tutto ormai normale, ci si è fatta l’abitudine. Ma alla mafia no, è istintivamente inaccettabile per la maggioranza, per bene, dei cittadini di questo strambo Paese.

Sapere di abitare una città non solo inquinata dalla corruzione ma in mano alle organizzazioni mafiose ti fa sentire parte di un organismo invaso da metastasi. Essere cittadini di una città sottoposta e infiltrata da un potere criminale pone in uno stato talmente alieno da disorientare e negare la propria identità, da rendere facile il gioco, poi, di chi vuole sviare l’attenzione dalla reale dimensione della crisi che si sta vivendo e che si è costruita in anni e anni di sottovalutazione, rimozione e complicità.

Forse è questa l’unica possibile chiave di lettura per interpretare il teatrino osceno che ha messo in campo la politica locale e nazionale su Roma caput mafia. Meglio i soliti politicanti e funzionari corrotti a caccia di mance e mazzette che un sistema governato o quantomeno condizionato dalla mafia. E quindi ci si lava le mani, ci si ripulisce il curriculum, si negano responsabilità e si tira avanti spacciando banalità per progetti, ipocrisia per impegno. Entrano in scena i teatranti, consapevoli e non, di uno spettacolo osceno in cui è in gioco l’intera nazione e anche la sua credibilità a livello internazionale.
Protagonista suo malgrado di questa pessima commedia un sindaco, Ignazio Marino, stritolato dalle schegge dalla bomba che si è innescata a dicembre 2014 con l’operazione “Mondo di mezzo” – condotta dalla Procura della Repubblica guidata da Giuseppe Pignatone – e poi travolto dalla nuova ondata di arresti in ambito politico della seconda operazione del giugno 2015. Marino che non vuole cedere, che non intende dimettersi, che spera di riuscire a evitare l’onta di uno scioglimento e conseguente commissariamento per infiltrazioni mafiose. Marino – per ora scommettiamo sulla sua onestà – che non sembra aver capito ancora oggi di essere stato usato, ad arte, dalla politica, dai corrotti, dalla mafia che ha infiltrato e poi preso la città. Prima di tutto per coprire il banchetto di quelli che pensava addirittura fossero uomini della sua squadra, ma che invece s’abbuffavano
alle sue spalle – questo emerge dalle carte della Procura – dove e come s’erano abbuffati prima, a dismisura, quelli der sinnaco nero, gli uomini di quel Gianni Alemanno che, lo voglia o meno, sarà ricordato come il peggior sindaco della Capitale di questa Italia repubblicana pigra e complice. Una Repubblica che ha evitato di mettere freno, per decenni, alla progressiva presa del potere da parte delle organizzazioni mafiose. Non solo a Roma, ma in tutto il Paese. Fino ad arrivare, poi, ad affidare a lui, l’extraterrestre piombato speranzoso nella paciosa orgia di spartizione che ha segnato e segna la Capitale, il ruolo di utile bersaglio di ogni operazione di depistaggio dell’opinione pubblica, mentre i poteri veri che si sono inghiottiti la città cercavano di mettere ’na pezza a sto casino che ha scatenato la magistratura.

Far finta di cambiare tutto per non cambiare nulla. Aspettando che passi la bufera. E intanto usare il comodo parafulmine del sindaco extraterrestre. E mentre Gianni se la deve vedere, oggi, con un’accusa grossa come una montagna, quella di associazione mafiosa – che solo a ottobre 2015 sarà in parte mitigata nell’atto di chiusura indagini, dove compariranno infatti solo le accuse di corruzione e di finanziamento illecito –, Ignazio si impunta, sbaglia, accumula figuracce e rimane fermo al palo. Immobile e immobilizzato. Perché è lì, legato al guinzaglio, che lo vogliono. Primi fra tutti quelli del suo stesso partito, il Pd. Comodo, Marino, anche per le opposizioni o per chi, e qui ancora il generone Gianni Alemanno e i suoi camerati di vecchia data, ha responsabilità enormi nella costruzione di questo disastro.

Ci stanno tutti a mette ’na pezza, anche quelli onesti e in buona fede e che mai e poi mai avrebbero voluto avere a che fare con i poteri criminali che dadecenni condizionano nell’ombra la vita della Capitale. Ma sempre ’na pezza ci vanno a mettere. A Roma il metterci pezza è un’arte. È prassi. Anzi, una vera e propria cultura. Le buche che devastano le strade della città? Ci si mette ’na pezza. La discarica di Mala grotta per cinquant’anni periodicamente a livello di saturazione prima di metterci mano e malamente? Ci si mette ’na pezza. Il sistema di trasporto pubblico disastrato e indegno di una capitale europea? Ci si mette ’na pezza. La città intera, anche quella all’interno delle Mura Aureliane, degradata, lurida, insicura e in disfacimento? Ci si mette ’na pezza. La rete di distribuzione del gas che – si sta indagando anche su questo anche se lontani dai riflettori dei media – potrebbe non essere mai stata rimodernata e messa in sicurezza? Ci si mette ’na pezza. Interi quadranti della città – non semplicemente quartieri – in mano alla criminalità comune e direttamente alle mafie? Ci si mette ’na pezza.

Ecco, questa è stata ed è Roma. Una città moralmente e fisicamente rappezzata. Malamente. Una toppa qua, una rinfrescatina là, e poi fatevene una ragione. “Così vanno le cose, così devono andare”.

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