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carabinieri-divisa-fictdi AMDuemila - 30 ottobre 2014
Questa mattina la Corte di Cassazione avrebbe dovuto pronunciarsi sulla sentenza per il maresciallo Saverio Masi, precedentemente condannato a 8 mesi di reclusione per falso materiale e tentata truffa, per aver voluto annullare una sanzione del codice della strada di 106 euro riportata durante un servizio svolto con un’automobile privata. A causa dell’indisposizione del relatore designato, però, la sentenza è stata rinviata a data da destinarsi e, con tutta probabilità, sarà un collegio diverso ad essere chiamato ad esprimersi in merito. Oltre al processo Masi, sono stati rinviati anche gli altri dibattimenti previsti per la giornata di oggi.

I fatti risalgono al 2008 quando Saverio Masi, attuale capo scorta del pm di Palermo Nino Di Matteo, lavorava al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri nel capoluogo siciliano. “Usavamo le macchine di amici perché i mafiosi conoscevano le nostre auto di servizio” aveva dichiarato il maresciallo durante la sua deposizione al processo Mori-Obinu. Nel momento in cui la sezione della Polizia Stradale di Palermo ha chiesto la conferma della versione del maresciallo, i superiori lo hanno denunciato all’autorità giudiziaria perchè nessun ufficiale lo aveva autorizzato ad usare una vettura privata durante il servizio di polizia giudiziaria quel giorno, oltre al fatto che nessuna annotazione dell’autorizzazione era stata riportata. Le indagini svolte dall’avvocato difensore, però, confermano l’uso ripetuto e continuativo di autovetture private per indagini investigative e l’ufficiosità di questa procedura.
Lo scorso 8 ottobre la Corte d’Appello di Palermo, assolvendo Masi dal reato di falso ideologico del quale era stato precedentemente accusato (insieme agli altri due reati) accertò che quel giorno il carabiniere era in servizio e dunque il problema era limitato al fatto che Masi avrebbe firmato al posto di un’altra persona per dichiarare il vero.
Nel 2010 Masi testimoniò al processo Mori-Obinu denunciando, tra l’altro, che nel corso di una perquisizione nel 2005 a casa di Ciancimino, un capitano dei carabinieri individuò il papello di Totò Riina contenente le 12 richieste di Cosa nostra allo Stato. Il documento venne però escluso dal rapporto perché i superiori sostennero di esserne già in possesso. Di fatto, però, risulta che il documento di Riina fu consegnato ai magistrati da Massimo Ciancimino solo nel 2009. Inseguito un superiore, rivolgendosi a Masi, gli consigliò di non indagare più su Provenzano. Stessa cosa per l’inchiesta su Matteo Messina Denaro, ultimo boss latitante.

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