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ciaccio-giorgio1di Giorgio Ciaccio - 14 dicembre 2013
Il procuratore di Palermo Nino Di Matteo non ha potuto recarsi all’udienza del processo relativo alla trattativa Stato-mafia, che si è tenuta a Milano e durante la quale è stato sentito il pentito Giovanni Brusca. Uno Stato che non è in grado di garantire la sicurezza dei propri Servitori e dei propri cittadini può ancora definirsi tale?

Il messaggio che passa nelle consorterie criminali – e nel Paese – è che lo Stato abdica alle sue responsabilità per manifesta inferiorità rispetto al potere politico-mafioso. Uno Stato ipocrita, quello che da un lato ostenta la propria partecipazione in pompa magna e con gli occhi lucidi a tutte le commemorazioni di chi è caduto per mano mafiosa (e non solo), dall’altro non fa nulla per agevolare – anzi ostacola – la ricerca della verità sulle stragi del ’92-’93. Un’Italia il cui Presidente della Repubblica ascolta con disponibilità imputati per falsa testimonianza su fatti così gravi (Nicola Mancino) che gli domandano di fare pressione sulla Magistratura per evitare condanne, in barba al principio costituzionale di separazione dei poteri e di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla Legge.

Un’Italia il cui Presidente della Repubblica, piuttosto che chiarire in maniera trasparente il suo ruolo in queste vicende per uscirne senza macchia, solleva un conflitto di attribuzione tra poteri con la Procura più in trincea di tutto il Paese – quella di Palermo – per ottenere la distruzione di intercettazioni telefoniche tra lui e l’imputato Mancino. Un’Italia in cui il Consiglio Superiore della Magistratura – presieduto dallo stesso Presidente della Repubblica – avvia un fascicolo disciplinare nei confronti di un magistrato antimafia, sempre sobrio nei modi e nelle dichiarazioni come Nino Di Matteo.

Ma in realtà in tutto questo non c’è nulla di incoerente. Le Istituzioni e il sistema partitocratico hanno tollerato e tollerano, per non dire auspicano, la connivenza e la contiguità con i sistemi criminali. O per lo meno non si impegnano (coi fatti, a parole sono bravissimi) per marcarne la distanza. Per queste ragioni nella politica italiana sono tollerati personaggi “chiacchierati” e gli “amici degli amici”. E così assistiamo a pantomime ipocrite come quelle del Ministro dell’Interno Angelino Alfano che, fulminato sulla via di Damasco, spende parole a favore dei magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Forse perchè gli hanno riferito – cosa ormai nota – che le minacce di morte al procuratore Di Matteo sono fondate (specie dopo le recenti intercettazioni di Totò Riina) e teme che qualcuno in futuro possa rinfacciargli la sua storica subalternità ai Berlusconi e ai Dell’Utri che nella storia della trattativa Stato-mafia, indipendentemente dagli esiti giudiziari, vengono tirati in ballo. Per non parlare del fatto che lo stesso Alfano nel suo nuovo partito ha al suo fianco quel Renato Schifani ancora oggi indagato proprio a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Chissà che anche il neo segretario del PD Renzi e il Presidente del Consiglio Enrico Letta non trovino un momento per prendere atto di quanto sta accadendo a Palermo e a Caltanissetta. O forse il 23 maggio e il 19 luglio sono ancora troppo lontani per parlare di lotta alla mafia?

Due convinzioni marcano la distanza – nei fatti e non a parole – tra il Movimento Cinque Stelle e le altre forze politiche:

1) nessun personaggio con ombre di prossimità rispetto alle organizzazioni criminali può essere tollerato nelle Istituzioni;

2) la Verità sulle stragi del ’92-’93 è determinante per ridare coscienza e vigore alla democrazia italiana.

Per questo, oltre a portare avanti una coerente attività nelle aule parlamentari, faremo tutto quello che è in nostro potere per non lasciare isolato il pool di magistrati di Palermo impegnato in questa difficile prova. La maggior parte di noi sono da anni al fianco di questi magistrati e continueremo ad esserlo. Non lasceremo che questi Servitori dello Stato respirino la stima e l’affetto dei cittadini onesti nei loro confronti quando potrebbe essere troppo tardi. Non vogliamo un altro 1992. Non ce lo perdoneremmo. Eppure ieri è stato un po’ come rivivere l’Asinara, nel 1985, quando Falcone e Borsellino furono trasferiti sull’isola per essere adeguatamente protetti…

Giorgio Ciaccio – Portavoce M5S all’ARS

Tratto da: sicilia5stelle.it

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