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georgofili-elicotterodi Aaron Pettinari - 27 maggio 2013
E' la notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 quando, a Firenze, viene fatta esplodere una Fiat Fiorino imbottita di esplosivo nei pressi della storica torre dei Pulci, tra gli Uffizi e l'Arno, sede dell'Accademia dei Georgofili.
Nella strage perdono la vita 5 persone, i coniugi Fabrizio Nencioni (39 anni) e Angela Fiume (36 anni) con le loro figlie Nadia Nencioni (9 anni), Caterina Nencioni (50 giorni di vita) e lo studente Dario Capolicchio (22 anni). Altre 48 persone rimangono ferite, alcune in maniera grave. Tutto attorno è distruzione con abitazioni abbattute e con danni persino nella Galleria degli Uffizi. E' quello uno degli atti eclatanti, dopo le stragi del 1992 in cui persero la vita Falcone e Borsellino, con cui Cosa nostra intraprese un feroce dialogo con lo Stato contro il regime di detenzione del 41 bis, che prevede il carcere duro e l'isolamento dei mafiosi. Due mesi dopo, il 27 luglio, altri attentati mafiosi vengono compiuti a Roma (alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e a Milano, in via Palestro, dove un'autobomba provoca cinque morti: tre vigili del fuoco e un agente della Polizia municipale intervenuti sul posto, e un cittadino straniero che dormiva su una panchina.

Dopo vent'anni la richiesta di verità e giustizia da parte dei familiari delle vittime di quegli attentati è sempre presente. Perché se da una parte sono stati condannati all'ergastolo i mandanti ed esecutori mafiosi (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano, il latitante Matteo Messina Denaro ed altri 15 affiliati) la verità assoluta sulla strage non è stata ancora svelata. Nuovi spiragli negli ultimi anni sono stati aperti grazie alle rivelazioni dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, testimone chiave al processo che ha visto imputato il boss Francesco Tagliavia, condannato all'ergastolo in primo grado, accusato di essere coautore dell'attentato a Firenze (nei giorni scorsi si è aperto a Firenze il processo d'appello), così come nel processo contro il pescatore siciliano Cosimo D'Amato, anche lui condannato all'ergastolo, accusato di aver procurato il tritolo utilizzato nelle stragi mafiose degli anni '90 ricavandolo da ordigni bellici inesplosi, tra cui la stessa di via dei Georgofili.
Tuttavia resta totalmente aperto il fronte sui mandanti esterni a Cosa nostra. Il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, ex reggente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, che si consegnò ai carabinieri il 22 luglio '93, due mesi dopo la strage di Firenze e cinque giorni prima degli attentati a Roma e Milano della notte fra il 27 e il 28 luglio, aveva detto sin da subito: “Cosa nostra non ha la mente fina di mettere un'autobomba come quella di Firenze”. Il pentito Giovanni Brusca ha rivelato ai pm fiorentini che a suggerire di colpire il patrimonio artistico e storico dello Stato fu un personaggio oscuro come l'estremista nero Paolo Bellini che in carcere aveva avuto rapporti con il boss Antonino Gioé.
Fra le inchieste aperte a Firenze sulle stragi, in passato, vi fu anche quella che vide iscritti nel registro degli indagati Autore 1 e Autore 2, ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, citati pure da Gaspare Spatuzza il quale racconta che quei nomi glieli fece il boss 'irriducibile' Giuseppe Graviano. Ma il procedimento del pubblico ministero Chelazzi venne archiviato nel 1998 e nonostante ciò la ricerca della verità non si è fermata.
Nei giorni scorsi il procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi a proposito dei possibili mandanti esterni delle stragi del '92 e '93 ha detto che le indagini non possono dirsi chiuse: “Chiuso è una parola senza senso perché, come dico sempre, queste indagini non devono e non possono chiudersi mai. Sono delitti imprescrittibili e chiudere significherebbe rinunciare, e la parola rinuncia noi non la conosciamo. Se qualcuno dentro o fuori le carceri, dopo venti anni, ha non dico la voglia ma la consapevolezza e la coscienza di poter dire qualcosa che non sappiamo, ce lo dica o anche soltanto ce lo faccia capire: ci basta”.
La speranza, quindi, di Quattrocchi “è che ci sia sempre qualcuno o qualcosa che ci permetta di poter andare sempre più avanti: non è possibile né onesto pensare che siano tutti qui, é possibile che ci siano altre presenze delle quali i collaboratori non sono stati in grado di dirci qualcosa”.

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