Oltre mille persone presenti alla facoltà di Giurisprudenza per onorare Borsellino e difendere i giudici che indagano sulle stragi e la trattativa
di Aaron Pettinari - 19 luglio 2012 - FOTOGALLERY, AUDIO E VIDEO ALL'INTERNO
E' un grido forte quello che si è sollevato nell'atrio della facoltà di Giurisprudenza di Palermo all'arrivo del corteo delle Agende Rosse per assistere al convegno organizzato da ANTIMAFIADuemila, "Trattative e depistaggi. Quale Stato vuole la verità sulle stragi?". Intonando cori (Ingroia, Di Matteo e Scarpinato, siete voi il nostro Stato” e “Fuori la mafia dallo Stato” per citarne alcuni ndr), esponendo striscioni e con l'agenda rossa in mano, ormai simbolo di un movimento che chiede verità e giustizia, pian piano l'atrio è andato riempiendosi.
Certo è che non si è trattata di una serata come tante, non solo perché si era alla vigilia del ventennale della strage di via d'Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e gli uomini della scorta, ma anche perché si è svolta a pochissimi giorni dalla grave presa di posizione da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale ha sollevato un conflitto d’attribuzione di fronte la Corte Costituzionale contro la procura di Palermo che indaga sulla trattativa tra pezzi dello Stato e mafia. In millecinquecento circa (a cui sono da aggiungere i tanti collegati via web che hanno assistito allo streaming) hanno così preso posto per assistere al convegno che vedeva come ospiti Salvatore Borsellino, i magistrati, Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato e Domenico Gozzo, il parlamentare europeo Sonia Alfano ed il giornalista Saverio Lodato. Una serata di emozioni forti, sin dall'ingresso dei magistrati, accolti con una vera standing ovation. Applausi prolungati e ripetuti poi quando il preside della Facoltà ha consegnato a Salvatore Borsellino la tesi di laurea del fratello che si laureò nell’anno accademico 1961/’62, con un lavoro intitolato “Il fine dell'azione delittuosa”. E' a quel punto che ha preso il via la serata con la moderazione della caporedattrice di ANTIMAFIADuemila Anna Petrozzi ed il direttore Giorgio Bongiovanni. Proprio quest'ultimo, dopo aver riportato l'intera platea indietro nel tempo facendo ascoltare un nastro con la voce di Falcone alla presentazione del libro dieci anni di mafia, ha posto l'accento sul particolare momento storico che si sta vivendo: “In questo momento c’è una grandissima e gravissima tensione nel nostro Paese, che si aggiunge alla grave crisi economica ed etica mondiale. In questo momento i magistrati che cercano la verità sulle stragi stanno toccando dei fili ad altissima tensione, e il potere si sta muovendo per mettere in pratica la stessa metodologia che mette in pratica da quando esiste la nostra repubblica e Cosa nostra, cioè quella di perseguitare, ridicolizzare, isolare e alla fine assassinare attraverso metodi mafiosi quelli che noi chiamiamo i giusti”. “Anni fa i magistrati dicevano che avevano aperto una porta verso la verità” ha poi aggiunto “ora quella verità sta per essere raggiunta, ma i poteri che non la vogliono non si fanno scrupoli ad assassinare questi magistrati. Noi cittadini dobbiamo essere insieme a Salvatore Borsellino e alle agende rosse e a tutti i familiari delle vittime di mafia, questa volta dobbiamo metterci di traverso per evitare che siano uccisi. Dobbiamo permettere a questi magistrati di raggiungere la verità anche se questa può far molto male”. Un accorato appello a cui si aggiunge anche quello di Saverio Lodato nel chiedere chiarezza proprio al Capo dello Stato Napolitano.
“A vent'anni dalle stragi c'è necessità di chiarezza e non di retorica. Purtroppo siamo arrivati a questo ventesimo anniversario non nel modo migliore. Si è creato un clima altamente surriscaldato in questi giorni, in queste ore, con l'iniziativa del Capo dello Stato nei confronti della Procura di Palermo. Come ha detto un collega sul Corriere della Sera forse questa iniziativa non corrisponde ad una bomba atomica o all'uso di armi non convenzionali, ma certo è che si tratta di un'iniziativa fragorosa”. “Come sarebbe stato bello – ha continuato il giornalista - se un minuto dopo aver sollevato il conflitto istituzionale il nostro capo dello Stato avesse rivolto un appello diretto ai magistrati di Palermo dicendo: andate avanti, non guardate in faccia nessuno, io come tutti voi pretendo di sapere la vera verità sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. E se un altro minuto dopo avesse rivolto, a reti unificate, un appello all’opinione pubblica italiana per dire: questo è il contenuto delle mie due telefonate, io ve lo svelo proprio per dimostrarvi che il conflitto che sto sollevando è solo formale e non ci sono ombre.” Prosegue Lodato tra gli applausi “Diversamente di fronte a questo silenzio assordante che ancora dura, ma che non è mai tardi per essere interrotto, indipendentemente da quale sarà il verdetto della consulta su questo conflitto di poteri, ci sarà un cittadino italiano che non avrà il legittimo sospetto o interrogativo che vengano tombati per sempre dei segreti di Stato? Io credo che in questo senso debba essere fatta chiarezza”. E su Mancino ha aggiunto: “Il cittadino Mancino Nicola – ha detto l’ex firma de L’Unità – privato cittadino come tutti noi è andato in giro per mesi cercando di dimostrare che il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento al Viminale, non aveva incontrato Paolo Borsellino. Il privato cittadino Mancino Nicola è andato in giro con le agende vuote, agende bianche, per convincerci che lui Borsellino non l’ha mai incontrato. Poi due giorni fa ha ammesso in televisione di avergli stretto la mano nel suo studio: davvero fragorosa come situazione”.
La parola è poi passata ai magistrati di Caltanissetta e Palermo. Ad iniziare Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, che ha ricordato il quotidiano lavoro nel cercare la verità sulle stragi e sulla trattativa: “E’ da quando sono magistrato che posso dire di avere sempre lavorato nella memoria di Paolo Borsellino, ma da quando mi occupo delle indagini sulla trattativa a piene mani ho iniziato a rendermi pienamente conto della sua solitudine. Una solitudine istituzionale fragorosa. Quel 19 luglio di vent’anni fa lui sapeva che il tritolo era arrivato per lui, tanto da dire all’ultimo collaboratore che sentì: io non ci sarò più la prossima settimana. E tanto era consapevole di quello che stava per succedere che il 18 luglio del ’92 decise di confessarsi in procura a mezzogiorno”. Poi ha proseguito “di fronte alla memoria di un uomo che pur sapendo di andare incontro alla morte continuò a fare il suo mestiere con l’umiltà di un uomo semplice, io ritengo che noi abbiamo un debito di verità nei suoi confronti che dobbiamo onorare.”
E sulla trattativa ha detto: “Mi si chiede diverse volte: questa trattativa c’è stata o non c’è stata? Io rispondo dicendo che già nel 1999 la Corte d’Assise di Firenze usciva con una sentenza in cui ne affermava, in maniera chiara, l’esistenza.” Un'esistenza accertata “sulla base delle parole di un uomo di Stato, un uomo del Ros, che utilizzò questa parola per la prima volta. In quella sentenza i giudici scrissero che in effetti l’iniziativa del Ros, ai tempi delle stragi, aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa e che l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli a proseguire con quelle stragi”. “Uno di quegli uomini del Ros (il riferimento è a Mario Mori ndr.), in qualche modo tra i responsabili morali delle stragi, venne nominato due anni dopo prefetto e direttore del Sisde. E allora mi prende lo scoramento: quale Stato ha potuto fare questo? Non aveva letto la sentenza? Una persona che ha compiuto questi atti merita di arrivare ai vertici dello Stato?”
Ha affermato Gozzo, parlando della situazione attuale “Oggi siamo un po’ più avanti nella ricerca della verità, ma come disse il mio amico Antonio Ingroia, siamo solo a un buon inizio. Abbiamo sulle spalle ancora molto da fare.” In un altro passaggio Gozzo ha detto “Fino a quando noi non capiremo che cosa è avvenuto nei primi mesi del ’92, perché la mafia decise di passare dall’eliminazione di Falcone a Roma, facilissima, a zero costo, a un’azione in Sicilia con il metodo stragista, terrorista, questa nostra democrazia sarà claudicante”.
Il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia ha detto “Qualche anno fa eravamo all'anticamera della stanza della verità, ora ci siamo dentro sia la Procura di Palermo che la Procura di Caltanissetta che ha sventato quello che è stato un depistaggio che ha costruito e fabbricato a tavolino una verità apparente su cui erano state costruite sentenze definitive per cui innocenti sono stati in carcere. Ora che siamo entrati anziché trovare una stanza illuminata siamo di fronte ad una stanza buia in cui qualcuno ha sbarrato le finestre, e dove le luci artificiali non funzionano perché sono fulminate le lampadine. Noi ci troviamo lì con le candele. Vent'anni sono tanti e troppi perché si accerti la verità su un fatto del genere”. Secondo Ingroia “per accertare la verità sulla strage di Borsellino prima ancora che domandarci chi uccise Paolo dobbiamo interrogarci sul perché Paolo è stato ucciso. Era questa la stessa domanda che Borsellino si poneva a pochi giorni dalla morte dell'amico e collega Giovanni Falcone. In tutti noi che al tempo eravamo lì in via d'Amelio c'era la consapevolezza che c'era qualcosa di anomalo in quella strage, di quasi unico che non si spiega solo con il fatto che Paolo era un nemico giurato di Cosa Nostra”. Poi il procuratore aggiunto di Palermo ha continuato rispondendo indirettamente a Marcello Dell'Utri che al mattino lo aveva definito pazzo all'uscita dalla Procura a cui aveva presenziato al processo che lo vede imputato per concorso esterno. “Dell'Utri ha detto che sono pazzo? Sì sono pazzo di verità. Penso di essere pazzo perché credo nella possibilità che si possa ottenere e raggiungere nonostante tutto la verità sui grandi misteri del nostro Paese. Mi sento pazzo perché sono ancora convinto che la nostra democrazia possa ancora diventare piena giungendo alla vera verità, non accontentandosi della mezza. Mi sento pazzo di fronte all'imbarazzo per la verità e alla paura che spesso si denota anche dentro le istituzioni anche più insospettabili. Sono pazzo perché credo in un'Italia che abbia il coraggio della verità, conquistata a qualsiasi prezzo e senza paura”. Infine ha concluso esprimendo il proprio rammarico sulla mancata realizzazione di una commissione d'inchiesta parlamentare sulle stragi del '92-'93 e sulla trattativa. “Trovo scandaloso che in questi vent'anni non una sola commissione d’inchiesta sia stata aperta sugli anni delle stragi del ’92 e ’93 e sulla trattativa, in un Paese come il nostro in cui sono state fatte commissioni d’inchiesta su qualsiasi cosa – ha detto - Questo è scandaloso: lo dico da cittadino e da magistrato. Nonostante costituisca una parziale riparazione la commissione Pisanu che ha messo al centro dell’attenzione questa inchiesta, anche se lo ha fatto al traino della magistratura di Palermo e Caltanissetta che ha aperto queste indagini. Va bene lo stesso, anche se le nostre spalle cominciano a diventare sempre più curve. La responsabilità tocca anche ad altri. Per questo chiediamo che la politica faccia dei passi avanti seri e concreti nell’accertamento delle responsabilità politiche. Sarebbe ora che lo facesse, non tocca a noi farlo”.
Davvero profondo l'intervento del procuratore Genrale presso la Corte di Appello di Caltanissetta Roberto Scarpinato: “In tutti questi anni c’è un dubbio che non ha mai smesso di tormentarmi e che si riaccende ogni volta che penso alla disperata rassegnazione di Paolo Borsellino perché lui si convinse che nessuno poteva fermare la mano dei suoi carnefici? Perché si sentì tradito al punto di avere una crisi di pianto? Perché lo Stato questa volta non poteva, o peggio non voleva proteggerlo? Perché disse a sua moglie: mi ucciderà la mafia ma saranno altri a volermi uccidere? Chi erano questi che lo volevano morto? Troppi interrogativi, che a mio parere non trovano ancora risposte plausibili. Troppe anomalie, troppi fatti inquietanti, che non trovano spiegazione neppure con la cosiddetta trattativa. E il nodo della riflessione che dobbiamo fare non può che essere lo Stato”. Ha proseguito poi elencando una serie di domande che esigono una risposta “Qual era la realtà del potere che si celava dietro lo Stato negli anni dello stragismo? In altri termini: c’era un solo Stato oppure lo Stato aveva più volti? E ancora: la questione stragista del ‘92 e ‘93 è solo una drammatica vicenda criminale o è anche una questione di Stato? E in che senso? Solo nel senso di cui si discute in questi giorni? Oppure c’è una realtà più drammatica e sommersa? Forse anche qui gli esecutori mafiosi poterono contare su suggerimenti e apporto logistico che avevano un piede dentro lo stato, appartenevano a strutture deviate dello stato. Se facciamo un elenco di tutte le anomalie che hanno caratterizzato le stragi e le fasi successive sembra di trovarsi dinanzi alla replica di un know how sperimentato durante stragismo della prima Repubblica”. Dopo aver elencato le anomalie Scarpinato si è infine chiesto: “Che fine hanno fatto questi potenti? Io credo che purtroppo siano tra noi, che seguono l’evoluzione delle indagini, cercano di depistarci, si muovono nell’ombra e sono così forti e potenti che tante persone che conoscono i segreti che si nascondono dietro le stragi non parlano, tengono la bocca chiusa perché sanno di trovarsi di fronte a un potere così forte che non c’è Stato che ti possa proteggere”. “E tuttavia – ha concluso tra gli applausi - io credo che da un po’ di tempo questi potenti comincino ad avere paura pure loro. Credo che le loro certezze si stiano incrinando, che si stiano arrampicando sugli specchi, hanno notti angosciose e insonni perché hanno capito che prima o poi riusciremo a trascinarli sul banco degli imputati”.
E' toccato al pubblico ministero della Dda di Palermo Nino Di Matteo analizzare gli ultimi difficili giorni della procura palermitana dopo le polemiche sulle intercettazioni di Nicola Mancino con Napolitano. “Andando avanti nelle indagini abbiamo percepito sempre più crescere la diffidenza e il fastidio verso le stesse. Molti erano convinti che queste non avrebbero portato a nulla o al massimo ad una richiesta di archiviazione. Quando poi è stato chiaro che si sarebbe arrivati ad una contestazione di reato e forse anche ad un processo ecco che si è fatto evidente il cambiamento. E quel malcelato fastidio è diventato un manifesto attacco per delegittimare in partenza le inchieste ed i magistrati che le conducono”. “Un attacco continuo – ha aggiunto Di Matteo – quando autorevoli esponenti politici che hanno definito i magistrati di Palermo come schegge eversive della magistratura con obiettivi intimidatori, e che è poi continuato anche su certa stampa che ha chiesto provvedimenti disciplinari a nostro riguardo. Nessuno ha ritenuto di dover intervenire per difendere e proteggere l'autonomia e la dignità personale dei magistrati, né il ministro della Giustizia né il Csm, né l'Anm nei suoi organismi centrali, che danno voce ad un assordante silenzio. Mi auguro che assieme all'isolamento non tornino i rischi che questo porta. Certo forse rispetto al passato la forza militare di Cosa nostra è più debole ma non è sufficiente questa speranza per accettare il rischio della delegittimazione e dell'attacco continuo. Noi continueremo a fare il nostro dovere, a cercare le verità senza paure, anche quelle verità troppo scomode, senza cedere allo scoramento e alla tentazione della polemica e della rassegnazione. A chiedercelo è la sete di verità e giustizia della parte migliore di questo Paese, oltre a tutti i nostri morti, come Falcone e Borsellino, e l'amore per il nostro Paese”.
Poi ha tracciato un bilancio: “A vent’anni dalle stragi del ’92 è tempo di bilanci e di analisi e se possibile, anzi se necessario, queste analisi devono essere anche coraggiose e per certi versi dolorose. Il bilancio di questi vent'anni è positivo solo per quanto concerne l’ala militare di Cosa nostra. Non è poco, ma non è tutto. Permane, a mio avviso, un deficit clamoroso per quella che dovrebbe essere la svolta: il salto di qualità, la recisione, una volta per tutte, dei legami tra mafia e imprenditoria, politica, istituzioni”. “E invece – ha aggiunto poi - si tenta di rendere l’ordine giudiziario, di fatto, asservito al potere politico. Il comune denominatore che colgo è quello del tentativo di trasformare il magistrato in un pavido burocrate più attento a non esporre se stesso a rischi di varia natura che non a trattare tutti i cittadini in maniera uguale davanti alla legge. Ma dall’altro lato, ed è quello che mi amareggia di più, temo che anche nella magistratura - perfino in quella palermitana, siciliana, più direttamente sconvolta dalle emozioni delle stragi, attenuatosi con il tempo l’onda della sacrosanta indignazione morale - si stia insinuando pian piano il germe di un ritorno al triste passato. Quello della palude nella quale affondarono Falcone e Borsellino, fatta di sentenze ammantate da finto garantismo, ma in realtà ispirate da una normalizzazione, una voglia di normalità”. Ha concluso poi Di Matteo “Anche la magistratura deve fare autocritica e trovare in se stessa gli anticorpi per isolare il germe della contiguità con agli altri poteri, spesso cercata per fini di carriera e per bieco vantaggio personale”.
A concludere la serata le parole forti di Sonia Alfano e Salvatore Borsellino rivolte nei confronti del presidente della Repubblica Napolitano. “Sarebbe bello che tutti i politici, intellettuali che hanno alzato barricate a difesa di Napolitano, fossero presenti ai processi di mafia in cui si parla di trattativa. Mi dispiace profondamente che il presidente della Repubblica abbia preso a cuore lo stato d'animo di un indagato, Mancino, mentre avrebbe dovuto prendere a cuore lo stato d'animo dei familiari delle vittime di mafia, di quelle mamme, di quei figli che quel 19 luglio 1992 non hanno più rivisto i propri cari” - ha detto la parlamentare europea - “Mi auguro che alla prossima udienza a settembre tanti politici che hanno riempito di parole inutili le agenzie di stampa di questi giorni trovino il coraggio di liberarsi dall'ipocrisia e stare vicini ai magistrati che lottano per la verità su quei terribili fatti”. Infine conclude: “Una persona che impedisce l'accertamento della verità per quel che mi riguarda non è un Presidente della Repubblica, perché non mi rappresenta”. Particolarmente dura anche la posizione di Salvatore Borsellino “E’ estremamente grave che un presidente della Repubblica, a pochi giorni dall’anniversario dell’assassinio di Paolo Borsellino, pone un macigno sulla strada della giustizia. Qualche giorno fa, durante la conferenza stampa di presentazione delle attività di questi giorni, mi sono detto quasi pentito di aver di recente chiesto l’impeachment per il presidente Napolitano, per quelle parole forse troppo forti, esagerate. Proprio in quel momento mia sorella mi ha riferito del conflitto di attribuzioni sollevato dallo stesso Napolitano nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia e in quel momento mi sono sentito sdegnato”. Durante il dibattito Borsellino ha poi ricordato le vicissitudini inerenti la scomparsa dell'agenda rossa del fratello Paolo, mai più ritrovata dopo la strage di via d’Amelio. In particolare Borsellino ha ricordato “chi prese la valigetta di mio fratello Paolo un magistrato come Giuseppe Ayala è riuscito a dare ben quattro versioni diverse contraddicendosi clamorosamente. Quell’agenda rossa rappresenta i mali di questa Repubblica, di queste istituzioni, che hanno paura a venire in via d’Amelio il 19 luglio, da quando noi della società civile la presidiamo. E la strage di via d'Amelio era necessaria anche per far sparire quell'agenda”. Poi conclude: “Che tipo di rappresentanti delle istituzioni sono quelli che hanno paura delle contestazioni della società civile?”.
E con forza ha poi gridato tra gli applausi della folla “Quest’anno non sono qui per Paolo, ma perché ci sono dei giudici vivi da proteggere. Sono qui per questi magistrati. Li vogliamo vivi, non li vogliamo piangere. Vogliamo dei magistrati che indaghino e trovino la verità, e non permetteremo che nessuno si ponga come ostacolo alla ricerca di questa verità e giustizia, fosse anche il presidente della Repubblica.”
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