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Spaccio a domicilio, armi pronte all’uso e corrieri che consegnavano la droga anche a clienti “importanti”

A Milano la chiamavano in molti modi: la Nera, la Bionda, Mamacita, addirittura Griselda, come la leggendaria regina della cocaina in affari con Pablo Escobar. Tanto è vero che la sua storia sembra uscita da una delle più recenti saghe sulle donne narcos che ultimamente vanno per la maggiore tra il pubblico delle serie tv. E, come per molte di quelle storie, anche questa è vera. Lontano dai soprannomi che circolavano negli ambienti e tra i contatti della donna in questione, il nome vero c’è, ed è quello di Katia Adragna. Classe 1979, Adragna si vantava di poter “mangiare” grazie alla vendita della droga.

In effetti, la Nera da “mangiare” ne aveva, eccome. La donna era a capo di un’impresa criminale che ha prosperato anche quando i vertici del clan Calajò sono finiti dietro le sbarre. Adragna ha gestito il traffico di droga per conto del clan, che da tempo detiene il controllo del narcotraffico nel quartiere popolare della Barona, a sud di Milano. Al vertice del clan, Nazzareno “Nazza” Calajò, condannato a 17 anni e 9 mesi nel 2024, mentre il nipote Luca ha incassato ulteriori condanne nel 2025. Con l’arresto di Nazza, di Luca Calajò e di altri esponenti di primo piano, secondo l’Antimafia milanese, sarebbe stata proprio lei, “la Nera”, a tenere in equilibrio il traffico di coca nel cuore della periferia sud di Milano, trasformando lo spaccio in un sistema organizzato, efficiente, molto simile a un’azienda performante. Grazie a lei e alla sua mentalità imprenditoriale di natura criminale, una vasta rete di pusher si muoveva in bicicletta, in motorino o a piedi, camuffati da rider per non destare sospetti. È così che, nelle intercettazioni - ha fatto sapere l’ANSA -, gli spacciatori diventavano “Glovo”. Ma a essere consegnati a domicilio non sono panini e pasti caldi, bensì dosi di cocaina, il più delle volte pagate in contanti.

Katia “la Nera” stabiliva turni, compiti, rimborsi carburante e persino indennità per chi metteva a disposizione la propria auto. Il cuore operativo era protetto dentro due appartamenti di via De Pretis e via Lope de Vega, dove si stoccava la merce, si confezionavano le dosi e si pianificavano le consegne. In un quaderno rosso e in un’agenda nera, gli investigatori hanno trovato la contabilità del narcotraffico: nomi in codice, crediti, ricariche su Postepay, costi e profitti. Ogni consegna, ogni grammo venduto, ogni spacciatore aveva una voce in bilancio. I prezzi erano fermi e per i clienti non c’era spazio per le trattative, nemmeno per quelli abituali.

Dalle indagini è emerso anche che tra gli acquirenti non vi erano soltanto i tossici del quartiere, ma anche personaggi “importanti”, come la stessa donna vantava di avere: avvocati, politici, persino giudici. Quando, nell’ottobre del 2024, le arrivò l’avviso di conclusione indagini, cancellò dalla rubrica quasi tutti i nomi, tranne quelli che “potevano servire” al sodalizio criminale. Insomma, una rete fitta di relazioni che, per ora, resta coperta dal segreto investigativo, ma che promette sviluppi clamorosi.

Attorno a Katia “la Nera” gravitava una consistente quota rosa di collaboratrici. Donne che avevano ruoli ben precisi e spesso tutt’altro che marginali. Infatti, insieme a Katia Adragna, sono finite in manette altre quattro donne. A vigilare, però, c’erano anche uomini pronti a risolvere i problemi con le armi. Alcune intercettazioni hanno infatti restituito il profilo inquietante di Toni Faraci, uno che si vantava di avere una mitraglietta, “otto caricatori da 36 colpi” e persino “quattro ananas”, ovvero bombe a mano. “La guerra la faccio solo con quella”, diceva mentre era completamente ignaro di essere intercettato.

Non stupisce, dunque, che la giudice Mariolina Panasiti, firmando l’ordinanza che ha portato all’arresto di 19 persone, parli di un gruppo “estremamente pericoloso”, dotato di mezzi, strategie e una precisa struttura organizzativa.

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