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Una nota del Servizio centrale di protezione compromette la loro incolumità 

Cresce il timore di numerosi testimoni di giustizia siciliani per la loro sicurezza, faticosamente costruita dopo la scelta coraggiosa di denunciare la mafia. Una nota del Servizio centrale di protezione, recapitata a decine di loro, compromette la loro incolumità. Stando al documento, le amministrazioni presso cui prestano servizio questi testimoni dovranno inoltrare alla Regione Sicilia informazioni personali, compresa la residenza protetta, assegnata proprio per tutelarli. L’allarme è stato lanciato da Ignazio Cutrò, presidente dell’Associazione testimoni di giustizia, che ieri in una diretta Facebook con l’onorevole Ismaele La Vardera (leader del movimento Controcorrente), e oggi sulle colonne del Fatto Quotidiano, ha detto: “Saranno più facilmente identificabili”.
A differenza dei collaboratori di giustizia, i “testimoni” sono persone che, senza mai aver fatto parte di organizzazioni criminali, hanno pagato un prezzo altissimo per contribuire alla giustizia. Le loro testimonianze hanno avuto un ruolo chiave in indagini e processi contro mafiosi, spingendo lo Stato ad accoglierli in un programma di protezione. Alcuni di loro, ritenuti maggiormente a rischio, hanno ricevuto una nuova identità e una nuova vita. 
In virtù di leggi regionali, i testimoni siciliani sono diventati dipendenti della Regione, ma chi è stato trasferito fuori dall’Isola – per motivi di sicurezza – è oggi esposto a un pericolo inaccettabile.
La nota del Servizio centrale fa riferimento a una decisione presa dalla commissione centrale il 16 aprile 2025. Viene autorizzata la comunicazione diretta tra le amministrazioni che impiegano questi soggetti e il datore di lavoro, ossia la Regione Sicilia. “Questo servizio centrale non fungerà più da tramite tra le predette amministrazioni – si legge nel documento –. I dipendenti dovranno quindi trasmettere le specifiche richieste alla Regione Sicilia, oppure consegnarle al proprio Comando o Ente di assegnazione”.
Secondo alcune fonti del Fatto, il provvedimento riguarderebbe solo ex testimoni usciti dal programma di protezione da almeno dieci anni, che non hanno cambiato nome e vivono in località protette, lavorando per enti pubblici come distaccati della Regione. L’intenzione, viene spiegato, sarebbe quella di semplificare la gestione delle pratiche burocratiche relative al contratto di lavoro – come malattie o congedi – evitando i rallentamenti provocati dal precedente passaggio tramite il Servizio centrale di protezione.
Ma la preoccupazione di Cutrò resta fortissima. “Faccio un esempio: un testimone di giustizia lavora in un ufficio del Viminale a Roma. Si conosce il suo nome, ma non la sua storia. Adesso con queste nuove regole tutti i suoi colleghi verranno a sapere chi è in realtà. Non solo. Alla Regione sapranno la sua residenza. E non c’entra che si tratta di persone fuori dal programma di protezione: la mafia non dimentica. I loro dati potrebbero diventare pubblici. Già in 25 hanno ricevuto questa comunicazione”.
Anche Giuseppe Carini, che ha testimoniato nel processo per l’omicidio di don Pino Puglisi, condivide la stessa angoscia: “Così la Regione Sicilia potrà conoscere dove alcuni testimoni di giustizia vivono con le proprie famiglie. Si butta all’aria tutto il lavoro fatto per fornirgli protezione. L’obiettivo per me è la chiusura del programma di protezione. Io ho scritto alla premier Meloni, al ministro dell’Interno Piantedosi, alla Commissione Antimafia: nessuno mi ha risposto”.
La denuncia trova sponda all’Ars. La Vardera, infatti, nella diretta Facebook con Ignazio Cutrò definisce “gravissima” la decisione del Servizio centrale, che fa capo al Ministero dell’Interno. “La nota dice due cose chiare: ‘Siete dipendenti regionali, perché testimoni di giustizia? Bene, da ora in poi la vostra identità verrà gestita dalla Regione. E a loro dovete riferire’. Come può il ministero affidare alla Regione siciliana un compito così delicato col rischio di avere una fuga di informazioni, mettendo in pericolo persone che hanno contribuito a epurare la mafia dalla nostra terra?”.
Mentre lo Stato appare sordo alle richieste di aiuto, e il Parlamento siciliano ingarbugliato con lo scandalo Galvagno, chi ha sacrificato la propria vita per la giustizia si ritrova a vivere una nuova forma di minaccia. Una minaccia che non viene più solo dai boss, ma da un sistema che sembra aver smarrito la memoria del coraggio civile.

Foto © Imagoeconomica

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