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A Catania la presentazione del libro “Immortali”. Sebastiano Ardita: “Dopo le stragi il Paese ha perso lo slancio di indignazione

A Catania una Biblioteca “Navarria Crifò” strapiena di persone ha assistito all’ultima tappa siciliana della presentazione del libro di Attilio Bolzoni “Immortali, perché la mafia è tornata com’era prima di Giovanni Falcone” (Ed. Fuori Scena). Un libro necessario, sentito e largamente apprezzato (addirittura già in ristampa), nonostante il poco spazio ricevuto sui giornali isolani. “In Italia c’è sempre più mafia e ci sono sempre meno mafiosi”, è la frase con cui l’autore comincia il volume. Un incipit puntuale attorno al quale ieri è ruotato l’intero dibattito moderato dal giornalista Antonio Ortoleva, con la partecipazione del procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita e della presidente di “Memoria e Futuro” Adriana Laudani (una delle realtà organizzatrici dell’evento assieme a "Biblioteca Valdese", “Navarria Crifò” e “Inchiostro”). “Io inizio questo libro con una riga che mi sembrava straordinaria: in Italia c’è sempre più mafia e sempre meno mafiosi”, ricorda Bolzoni. “A questa riga Antonio Ortoleva ha aggiunto un concetto ancora più straordinario: ogni anno festeggiamo il compleanno di Falcone e quello di Borsellino. A me è scivolato un brivido”, racconta l’autore. “Perché questo è accaduto negli ultimi anni. Allora per non disperdere questa incazzatura che c’è, ho cercato di delimitare il racconto dentro un confine temporale di dieci anni”. Dieci anni fa, infatti, “una cimice comincia ad accendersi nel luogo più sacro della giustizia siciliana, la sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo”, rammenta il giornalista citando lo scandalo Saguto. “Dieci anni fa Antonello Montante si toglieva la maschera. Dieci anni fa ci fu la retata di Mafia Capitale”.





Sono eventi storici che hanno scosso l’opinione pubblica e che restituiscono il negativo di un Paese alle prese con un sistema di potere politico-affaristico-mafioso imponente di cui troppo poco si parla. “In questi dieci anni mi accorgo che accadono tante cose che apparentemente sono slegate l’una dall’altra”. “Le ho messe insieme in un libro e ho detto vediamo che succede. Poi me lo sono ritrovato in mano che scottava un po’”, commenta. Dopo le bombe, "la mafia è tornata mafia", scrive Bolzoni nel libro. E l’antimafia? “È tornata pericolosamente indietro, è tornata a prima di Giovanni Falcone”. L’autore, infatti, parla di una mafia militare, che definisce “sconcia”, ormai sconfitta, nonostante i suoi tentativi di ricostituzione, ma soprattutto di un’antimafia in seria difficoltà. “C’è una magistratura che ha perso lo slancio degli anni successivi alle stragi. C’è un’antimafia sociale che si struscia nei palazzi. E un giornalismo innocuo (nel migliore dei casi), di una piattezza pazzesca”, afferma Bolzoni ricordando come i grandi giornali hanno parlato della cattura di Matteo Messina Denaro. “In tutto questo succedono cose che a me turbano”, aggiunge. “Quarant’anni fa un professore della facoltà di giurisprudenza di Palermo disse che il maxi processo è un obbrobrio. L’anno scorso il dottor Nino Di Matteo è andato a incontrare gli studenti e si è alzata una docente che ha detto la stessa cosa. Fino a 6-7 anni fa certe cose non si potevano nemmeno pensare, chiunque l’avesse detto sarebbe stato portato in un manicomio. Oggi invece c’è un clima che lo consente”. “C’è un clima che consente di braccare magistrati come Di Matteo e altri dagli ex imputati. E contemporaneamente ci sono decine di migliaia di persone che osannano uomini politici condannati per mafia”.


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Sono anche loro i protagonisti del volume. “Parlando di immortali. Io sono convinto che l’intelligenza collettiva di Cosa nostra è dentro la Regione Sicilia. Dai tempi dell’omicidio di Salvo Lima i fatti ci dicono che in Sicilia c’è una sola famiglia politica. Tutti loro, tranne uno, indipendentemente dalle condanne, dalle assoluzioni e dai proscioglimenti hanno promiscuità acclarate con Cosa nostra”. Bolzoni li mette in fila: Totò Cuffaro, Raffaele Lombardo, Saverio Romano, Renato Schifani. “Intorno a loro c’è un sistema. La giustizia non è riuscita a incastrare alcuni di loro, altre volte non c’era motivo di incastrarli, altre sono stati condannati e quando lo furono poi sono tornati più forti di prima. Cuffaro, per esempio, ha comandato prima, durante e dopo il carcere. Ha piazzato i suoi uomini in tutti i governi. E non a caso a Rebibbia riceveva deputati e amici”. “Questi - aggiunge - comandano da tre decenni. Siamo di fronte a qualcosa di clamoroso ma non ce ne accorgiamo perché ci siamo abituati. Comandano e i giornali locali e nazionali li trattano come statisti”. 


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Sebastiano Ardita 


La crisi delle istituzioni e l’indignazione che si smaterializza

Lo slogan che c’è sempre più mafia e ci sono sempre meno mafiosi è una frase insuperabile, che arriva dritta”, esordisce Sebastiano Ardita prendendo parola. “Il vero problema è questo ritorno alle origini, cioè una mafia che torna ad essere quella che è sempre stata”, commenta. Allo stesso tempo l’indignazione generale dopo le stragi “sembra che si sia smaterializzato”. La mafia “è tornata a far parte di un modo di essere”. “La mafia come realtà militare che fa affari più che caricare pallottole è in realtà qualcosa di presente dentro la dimensione sub-culturale nella quale vive la società. E non è più soltanto la società siciliana. La mafia rafforza il potere e dove il potere diventa l’oggetto principale di un’attività pubblica, questo potere attira il metodo mafioso. Lo fa proprio e quindi è normale che si espanda nei territori. Il potere ama il potere mafioso, che è capace di mitigare ogni tentativo di ribellione. Questo si legge nel libro di Attilio Bolzoni”. Il libro “Immortali” “questi argomenti li tratta tutti, anche se non in maniera specifica, perché incornicia un tema generale che è quello delle crisi delle istituzioni”, continua il magistrato.  


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Questo è il tema di cui si dibatte da sempre, il rapporto tra giustizia e poteri. La differenza che si percepisce in questi ultimi tempi è quella di una frontale contrapposizione che porta con sé un grande rischio. Non è soltanto il rischio che giustizia e politica, che alla fine dovrebbero essere due strumenti delle istituzioni dentro lo Stato, si facciano del male a vicenda e facciano del male ai cittadini. Il rischio è che si confondano in questo conflitto le responsabilità e che tutti vengano visti come buoni o cattivi per il fatto stesso di stare da una parte o dall’altra. Quando diventa un conflitto tra gruppi porta soltanto confusione. Purtroppo ci sono problemi in tutte le realtà istituzionali. Ci sono problemi enormi nella politica, ma ce ne sono anche nella giustizia”, commenta. “Sono stato per quattro anni componente del Csm e per quattro anni, insieme al collega Nino Di Matteo, ho passato le giornate a ingoiare veleno per difendere magistrati più valorosi e liberi da centri di potere, da cordate e cercare di sostenerli. Per esempio quando commettevano un errore in buona fede e venivano travolti dalla macchina repressiva interna. E sostenerli quando avevano un’aspirazione a cambiare posto. Abbiamo lottato contro il correntismo che è una malattia interna, che attraversa il potere e che se non si emenda rischia di travolgere qualunque tipo di riforma che verrà fatta”. Il magistrato si esprime poi sulla separazione delle carriere e sul sorteggio dei membri del Csm. “La separazione delle carriere non è una soluzione ma un aggravarsi del problema. Questa riforma, forse causalmente o forse subdolamente, viene accompagnata nello stesso testo dalla riforma del sorteggio per i componenti del Csm. Sono due cose che non c’entrano nulla l’una con l’altra ma vengono portate insieme perché confondono e perché fanno una prospettiva di risanamento che però non sarà tale. E’ una riforma che ha come unico effetto quello di allontanare il pubblico ministero dalla cultura della giurisdizione. Questa riforma della separazione delle carriere, unita a quella del sorteggio dei componenti del Csm, è una miscela esplosiva per confondere le idee”. 


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Aboliamo la parola “Antimafia”

A concludere è Adriana Laudani di “Memoria e Futuro”. “Molti sentimenti che attraversano il libro di Attilio sono anche miei. Anche io come Attilio sono per abolire la parola antimafia”, dice schietta l’avvocato. “Perché è stata profanata da pezzi che erano chiamati a praticarla, penso al caso Saguto. O al caso Cuffaro, o al caso Montante. Costoro hanno svuotato dall’interno ogni legittimità e legittimazione all’azione che cittadini comuni ritengono essenziali per difendere la democrazia. Poi c’è un’altra parte di profanazione”, spiega. “L’antimafia l’hanno profanata anche quei parenti delle vittime che l’hanno usata. Questo per me è motivo di dolore straordinario”. “Non è possibile vedere Maria Falcone accanto a Vito Schifani o Roberto Lagalla. Non si può sopportare. Come non si può sopportare Caterina Chinnici o Rita Dalla Chiesa che vanno nel partito di Marcello Dell’Utri (Forza Italia, ndr)”. “C’è troppa antimafia a pagamento. Anche a Catania”, commenta Laudani. “Quindi poiché noi non possiamo rinunciare al nostro diritto di batterci per la legalità e la democrazia dobbiamo segnalare discontinuità assoluta o corriamo il rischio di essere tutti gli stessi. Abbiamo sbagliato a non accorgerci in tempo di questa profanazione. E questo è la fine di tutto. Quindi quando Attilio dice aboliamo l’antimafia, io dico sì la aboliamo”.


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Proseguendo con il suo intervento la presidente di “Memoria e Futuro” ritiene “che ci sia una ragione perché oggi si dice che la mafia non c’è più”. E lo si spiega con il fatto che “i soldi della mafia oggi servono a tutti e tutti se ne avvantaggiano”. “Questa è la mafia degli incensurati, perché alcuni non sono stati indagati, altri invece sono stati ripuliti. Noi abbiamo la necessità di domandarci insieme che cosa accade oggi in Sicilia e in Italia, chi sono i nuovi protagonisti del sistema di potere politico-affaristico-mafioso? E vero che sono tutti invisibili? Oppure è tristemente vero che non c’è, per esempio, in questo momento sufficiente attenzione investigativa tra i giornalisti ma nemmeno tra gli organi di polizia o di magistratura o nell’ambito della società civile”. Parole durissime. “Io credo che se ci mettiamo insieme a farlo, come fece a suo tempo Pio La Torre, saremo in grado di dare nome e cognome a una nuova mappa dei poteri forti, che vivono nell’ombra, hanno acquisito una forte soggettività economica, danno forza alla politica e determinano il consenso. Penso che dovremmo aprire gli occhi sulla realtà e forse a tutti questi incensurati potremmo dare qualche nome e cognome”. 

Foto © ACFB 

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