La strage di Capaci si è commemorata con una decina di minuti d'anticipo. Un silenzio partito alle 17,48 anziché alle 17,58, l'ora esatta del massacro, per evitare un contatto fra chi stava sul palco e chi stava protestando per strada. Due mondi lontanissimi in una città ripiombata nella sua palude.
Ma cosa passa per la mente dei detentori ufficiali del ricordo, dei proprietari del pensiero dei loro (ma oserei dire anche nostri) eroi, dei grandi cerimonieri degli anniversari di Palermo? Cosa passa per la loro testa quando, ormai assuefatti nel piegare i fatti a esigenze molto personali o politiche, riescono perfino a cancellare le date, spostare le lancette dell’orologio, stravolgere il tempo? Ho sempre saputo di una mafia spaventosamente puntuale, adesso ho fatto conoscenza anche di un’antimafia che può andare fuori orario.
Forse dovremmo vergognarci come si è vergognato Giovanni Paparcuri, l’uomo al quale il giudice Falcone aveva affidato ogni suo segreto d’indagine, che l’altra sera, quella del 23 maggio, se n’è tornato a casa sconvolto perché la strage di Capaci all’Albero Falcone si è commemorata con una decina di minuti d’anticipo. Un silenzio partito alle 17.48 anziché alle 17.58 – ora esatta del massacro – per paura di proteste contro alcuni uomini politici e per non farsi contaminare da padri con i figli in braccio, sindacalisti, studenti, rappresentanti di associazioni.
Tre squilli di tromba frettolosi e poi tutti via per evitare una vicinanza fra chi stava sul palco e chi per strada, più che due antimafie ormai due mondi lontanissimi, due Palermo che non si parlano più e che non si parleranno ancora per molto tempo.
C’è qualcosa di perverso in ciò che sta accadendo in Sicilia trentatré anni dopo la bomba di Capaci e l’auto saltata in aria in via Mariano d’Amelio, Falcone e Borsellino, simboli agitati alla bisogna, usati per fini non sempre dicibili ma diventati fonte di fratture insanabili. “La memoria non è un cronometro”, ha ribattuto la Fondazione Falcone, cioè Maria Falcone, sorella del giudice, a coloro i quali non hanno digerito la rapidità della celebrazione.
C’è qualcosa di grottesco in questa povera Palermo che si ritrova ogni 23 maggio in mezzo a beghe e a scandali, protervie e finzioni. Una volta il sindaco che non c’è, una volta la polizia che carica, oggi le lancette dell’orologio truccate. Povera Palermo. Attraversata da una retorica sempre più insopportabile, nascosta dietro un’ipocrisia pericolosa, la città “formale” si specchia anche in un Museo del Presente inaugurato da Maria Falcone e al suo fianco il governatore Renato Schifani, nominato campione dell’antimafia sul campo. Paradossi siciliani.
Con lui che ricorda, dopo più di tre decenni, "di avere avuto l’onore di collaborare con Giovanni Falcone quando era giudice fallimentare e ho conosciuto una persona pratica e schietta e da lui ho imparato il pragmatismo delle decisioni".
Ormai tutti possono dire tutto e su tutti tanto nessuno li smentirà mai, nessuno mostra più rossore, nessuno ha più confini in una Palermo che non riesce a liberarsi da sé stessa dopo avere lottato e sperato. È ripiombata nella sua palude con tutti che gridano “abbiamo vinto e la mafia è stata sconfitta”.
L’ha fatto un anonimo signore sul palco vicino all’Albero Falcone poco dopo i tre beffardi squilli di tromba e l’ha fatto il governatore Schifani, più solennemente e prudentemente, aggiungendo un meno perentorio “quasi”.
Ma l’aria che tira e già da un po’ è questa. La mafia in ginocchio, lo Stato che ha vinto, i boss tutti in galera, le persone perbene libere e fuori. E sempre in nome e per conto di Giovanni Falcone.
Andarono così le cose anche nei mesi a cavallo fra la fine del 1987 e l’inizio del 1988.
Si era appena concluso il maxi processo in primo grado con una raffica di ergastoli, tutti urlavano che lo Stato aveva vinto e la mafia aveva perso grazie a Giovanni Falcone e al suo genio.
Meno di tre mesi dopo l’eroe Falcone fu implacabilmente bocciato al Consiglio superiore della magistratura come consigliere istruttore, messo fuori gioco dai colleghi che cento giorni prima l’avevano osannato.
Gli preferirono un collega più anziano che non si era mai occupato di mafia: una garanzia.
Tanto la mafia era stata sconfitta per sempre. Poi sappiamo bene cosa è successo.
Tratto da: editorialedomani.it
Foto © Imagoeconomica
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