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L’ex artificiere Diego Giovine: “Non può essere stata solo mafia a compiere le stragi”

Lunedì 19 maggio alla biblioteca di Resana (TV) si è svolta una serata organizzata dall’ex sindaco Loris Mazzorato con l’associazione “Respiro e rinascita” e per relatore il poliziotto in pensione Diego Giovine di Castelfranco Veneto, ex membro dei reparti speciali nucleo artificieri, con esperienza di scorta.
Nell’occasione è stato presentato il cortometraggio “Eroi silenziosi” prodotto dal sindacato di polizia FSP di Treviso di cui Giovine insieme ad altri colleghi è autore. Il video nasce per commemorare l’estremo sacrificio degli agenti delle scorte deceduti durante le stragi che strapparono la vita a Giovanni Falcone prima e a Paolo Borsellino poi: Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina. Nomi spesso lasciati in secondo piano rispetto ai due grandi magistrati. Il documentario presentato, non è un’opera artistica, ma una sequenza icastica di immagini, che in meno di venti minuti delinea la scena dei due attentati dinamitardi che hanno sconvolto l’Italia. Al silenzio delle immagini seguirà, poi, il commento proprio del regista.
Inatteso, dopo la visione del cortometraggio, c’è stato un toccante collegamento con Salvatore Borsellino che ha ricordato come i ragazzi della scorta sono stati “mandati al macello” insieme al fratello, che era sicuro di avere i giorni contati, perché “Paolo fino all’ultimo giorno della sua vita avrebbe tentato di arrivare agli assassini di suo fratello”, per cui andava eliminato. “Sono stati fatti letteralmente a pezzi” ha detto Salvatore, raccontando di come Luciano Traina riconobbe i resti del fratello da una scarpa al cui interno il piede era ciò che restava di Claudio; di come Emanuela Loi fosse stata “stampata” sul portone di via d’Amelio e i suoi resti contenuti in una scatola di anfibi dei Carabinieri. Per questo la madre lo obbligò a giurare che avrebbe sempre ricordato anche i nomi di quei ragazzi insieme a quello di Paolo, perché, se del giudice era rimasto il tronco e il capo, nelle loro bare c’erano solo “pezzi mescolati insieme, perché non era possibile fare altrimenti”.
Ma già allora quegli attentati erano evitabili con l’uso del bomb jammer, un dispositivo che disturba le frequenze. Una richiesta, testimonia Giovine, inoltrata dal servizio di sicurezza al Ministero, che però rispose negativamente, perché molestava la popolazione.
Salvatore Borsellino, con rammarico, ammette di non aver conosciuto i ragazzi della scorta e ci riporta la orrida esperienza del sopravvissuto Antonio Vullo, il “condannato a vivere”, che scendendo dalla macchina ha sentito bagnato per terra (ma non pioveva quel giorno a Palermo) e delle cose molli: erano il sangue e i resti dei suoi colleghi.
Il senso di ingiustizia per la mancata verità su questo eccidio è sempre vivo nel suo cuore, purtroppo la ricostruzione di come si è svolto l’attentato è ancora lontana: non si sa chi ha premuto il telecomando (per Salvatore la cabina di regia si trova a Castel Utveggio dove c’era un centro del Sisde, che è stato smantellato nei giorni successivi) e l’agenda rossa dove Paolo annotava le ultime indagini, trafugata subito dopo la strage, non si trova.
Dopo il congedo del fratello del giudice Borsellino e alcuni spunti di riflessione del prof. Enzo Guidotto, riprende la parola Diego Giovine che ci elenca una serie di motivi tecnici, data la sua ventennale esperienza come artificiere, che avvallano la tesi che non può essere stato Brusca a innescare l’esplosivo nella strage di Capaci.
Innanzitutto, dopo aver fatto ascoltare al pubblico una parte della deposizione del mafioso in cui mostra tentennamenti nell’azionare il telecomando, fa notare come non sia possibile colpire delle macchine che correvano a più di 150 km orari (questo segnava il contachilometri bloccato della Quarto Savona 15 bis, prima auto della scorta), in quanto la percorrenza in un secondo e mezzo è di 86 m, quindi non ci si può permettere di esitare. Inoltre, dal luogo dove si trovavano al punto di detonazione ci sono quasi 700 m e solo questo causa un ritardo del segnale di 0,9 secondi.


eroi silenziosi

La seconda evidenza consiste nel fatto che Brusca dichiara che avevano provato l’esplosivo nella cava di Biondino e che avevano predisposto due detonatori per i 500 kg, ma, dato che uno non avrebbe funzionato, decisero di usarne solo uno. Giovine contesta che per detonare quella mole di esplosivo ci vuole un collegamento in serie o in parallelo e più detonatori. Sotto l’autostrada di Capaci sono stati messi 13 barilotti da 30-40 kg su suggerimento del Fuochino, un mafioso che faceva i fuochi d’artificio. Il relatore fa notare come essere artificiere e lavorare con i fuochi d’artificio non sia la stessa cosa: lui ha dovuto fare un corso di 6 mesi e aggiornarsi ogni anno. Alla domanda del pm su per quale motivo li hanno messi lungo tutta la carreggiata, Brusca replica che sempre il Fuochino spiega che così ci sarebbe stata una esplosione per vicinanza. Il termine tecnico è “per simpatia”, commenta Giovine, ma in realtà i barilotti erano distanziati, quindi, usando un solo detonatore, l’esplosione sarebbe stata parziale e inefficace. Qualcun altro aveva predisposto il tutto.
Per la strage di Borsellino, espone ancora Giovine, è stato usato dell’esplosivo militare e questo solleva un’altra questione: come hanno fatto i mafiosi a reperirlo?
Tante incongruenze fanno capire che non è stata solo mafia, come la sparizione del rullino di Antonio Vassallo, il fotografo giornalista tra i primi avventori sul luogo della strage di Capaci, sequestrato da due agenti in abiti civili.
Non esiste verbale di sequestro e La Barbera, che si rivelerà essere dei servizi, con una scusa sostiene che è stato dimenticato sulla tasca della giacca e poi non si è più trovato.
Giovine evidenzia a più riprese come ci fosse stata una volontà politica di lasciar uccidere Falcone e Borsellino. Parlavamo prima del mancato uso del bomb jammer, a Falcone fu tolto l’elicottero per motivi economici, tante volte fu chiesto dalla squadra sicurezza la bonifica dei luoghi o l’auto con i cinofili (un cane rileva grammi di esplosivo figuriamoci i chili usati per le stragi) o la mancata concessione del divieto di sosta davanti alla casa della madre del giudice Borsellino. Le stesse scorte non venivano ben preparate, solo Vullo e Catalano del gruppo di via D’Amelio avevano fatto il corso. Inoltre, non è mai stato chiarito perché non uccisero Falcone Roma dove girava senza scorta.
L’incontro si conclude con il desiderio dell’autore di poter portare il cortometraggio nelle scuole per far conoscere ai ragazzi un po’ di storia degli anni ’90, dato che quella contemporanea non trova posto nei programmi.

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