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Secondo la teste carabinieri in borghese e il generale frequentavano l’appartamento di Silvio Ferrari

Le pressioni del generale Francesco Delfino su Ombretta Giacomazzi emergono come un elemento centrale nella sua testimonianza. Delfino la minacciò per costringerla a coinvolgere persone innocenti, come Andrea Arcai, figlio del giudice Arcai, in false accuse legate alla strage di Piazza della Loggia.
Con lui, durante alcuni interrogatori, c'era anche un altro ufficiale che "si chiamava Mori".
La deposizione della super testimone, Ombretta Giacomazzi, durante il processo per la strage di Brescia del 28 maggio 1974 è durata diverse ore e ha toccato nervi scoperti.
In primis fra tutti la figura ingombrante di Delfino: la teste ha raccontato di essere stata interrogata in piazza Tebaldo Brusato. Delfino "comincia a dire che sono una bugiarda, che dovevo andare in carcere. Adesso c'è un momento anche di nervoso a pensarci quanto sono stata stupida a non parlare allora. Praticamente quando mi ha interrogato. Delfino era con un altro ufficiale e a un certo punto ha inveito contro di me mentre il magistrato mi stava interrogando dicendo che questa ragazza è una bugiarda, dobbiamo arrestarla eccetera eccetera".
Delfino mi disse: ‘se tu non vuoi che io trasformi il reato di reticenza in concorso in strage devi fare ciò che ti dico io. Devi cercare di coinvolgere il figlio del giudice Arcai che si chiama Andrea Arcai. Lo conoscevo di vista Andrea Arcai, ma lui non è mai stato coinvolto in nulla".
"Mori era presente quando Delfino le ha chiesto di accusare ingiustamente Arcai?
" ha chiesto il Pm Caty Bressanelli.
"Certo" ha risposto Giacomazzi.
Inizialmente ella cedette alle pressioni e fece affermazioni contro Arcai, ma non contro Arturo Gussago, un amico che non volle coinvolgere. Successivamente, pentita di aver accusato un innocente (Arcai, allora quindicenne), scrisse una lettera di ritrattazione da Rovereto. Questo provocò la reazione di Delfino, che la feve trasferire nuovamente in carcere a Bologna, accusandola di aver violato obblighi di soggiorno. A Rovereto, Delfino le ordinò di ritrattare la ritrattazione, ma durante il processo a Brescia, presieduto dal giudice Allegri, la Giacomazzi cercò di dire la verità. L’esame venne però interrotto e, dopo pressioni familiari e del suo avvocato, decise di tacere.
Caty Bressanelli, durante l'audizione, ha sottolineato il potere di Delfino sulla libertà della Giacomazzi, che lo percepiva come colui che controllava i suoi trasferimenti tra Venezia, Rovereto e Bologna.
"Ho sempre avuto paura del generale Delfino fino a quando lui è stato coinvolto nel sequestro di mio suocero Giuseppe Soffiantini ed è caduto dal piedistallo sul quale è stato per tutta la carriera" ha dichiarato Giacomazzi. "Non ho comunque parlato della strage fino a pochi anni fa perché comunque Delfino era ancora vivo", ha aggiunto la donna che è poi stata ascoltata 40 volte dal generale dei Ros Massimo Giraudo: "L'ho visto come un sacerdote. Sapevo che non mi avrebbe mai giudicata".
Alla domanda del presidente della Corte Roberto Spanó, "lei oggi ha paura di qualcuno?" Ombretta Giacomazzi ha risposto: "Anche se non lo vedo dal 1974, Nando Ferrari (condannato per omicidio colposo del giovane neofascista Silvio Ferrari e coinvolto e assolto nella prima storica inchiesta sulla strage, ndr). Non ho paura di essere ammazzata, ma non ho voglia che mi venga sconvolta la vita perché io in 50 anni ho fatto la mia vita".



Le riunioni per vendicare Silvio Ferrari

Tra la morte di Silvio Ferrari e la strage il teste ha dichiarato di aver rivisto i veronesi nella pizzeria che all’epoca gestivano i suoi genitori il giorno dei funerali di Silvio e pure tra il 23 e il 24 maggio, pochi giorni prima dell'attentato di piazza della Loggia: "Quel famoso pomeriggio dove loro vengono, tutti quanti, e parlano di vendicare Silvio". C’erano "Toffoloni, Paolo Silviotti, Zorzi", "Nando Ferrari e Arturo Gussago". "Sono molto vicini. A due tavoli, anche perché sennò non ci stanno, però molto vicini"; e sono rimasti “tre quarti d'ora, un'oretta, non di più".
Roberto Zorzi (odierno imputato) in quell'occasione disse: "Quello che non ha fatto lui lo faremo noi”, riferendosi a Silvio Ferrari, saltato per aria la sera del 19 maggio in piazza Mercato per un bomba esplosa mentre la trasportava in Vespa al locale Blue Note.
"Ma quello che non aveva fatto lui (Ferrari ndr) era l'attentato al Blue Note. E quindi è come se io pensassi, si vede che fanno un'altra cosa, magari tentano ancora di fare l'attentato al Blue Note. Non lo so cosa ho pensato. Questa cosa mi ha dato molto disagio". "Io non mi sono mai aspettata una strage", ha detto la teste. Tuttavia, qualche tempo prima dei fatti di piazza della Loggia, decise di avvertire il carabiniere Sandrini, recandosi al nucleo investigativo. Gli raccontò la riunione, fece i nomi dei partecipanti, incluso Roberto Zorzi, e riferisce le minacce. Si incontrano fuori dalla scuola, si siedono su una panchina nei giardini di Viale Italia e lì avviene il colloquio.
Dopo la strage, Sandrini la richiamò e la portò in un bosco a Bedizzole, intimandole di non raccontare mai a nessuno ciò che aveva riferito, né di menzionare il suo nome o i dettagli della riunione in pizzeria. Le fa “spergiurare” il silenzio. Ombretta spiega che solo in quel momento collega i fatti della pizzeria alla strage.
Alla domanda sul motivo per cui non doveva parlare, ha risposto che avrebbe svelato il legame riservato con Sandrini, la sua frequente presenza in via Leardi e a Parona, e la natura confidenziale dei loro contatti.


Carabinieri e Delfino nell’appartamento di Silvio Ferrari

Si frequentavano i due: “Ci incontravamo qualche pomeriggio, prima di andare in pizzeria. Lui aveva un piccolo appartamento in Via Leardo, a Leardi, e noi ci trovavamo lì" ha detto.
"Me lo ricordo vagamente comunque era molto piccolo era all'ultimo piano di questo di questo condominio si accedeva con le scale non mi ricordo assolutamente se ci fosse ascensore forse no erano due stanze più un disbrigo che poteva essere una specie di piccola cucina cucina intesa come giusto per farsi un caffè cioè quindi".
"Ci venivano un sacco di persone"
in quel appartamento, ha aggiunto, "ho saputo dopo che erano carabinieri perché erano sempre tutti in borghese e quindi erano più adulti di noi e di me e di Silvio e però io li ho rivisti pian piano in quello che è il dopo, cioè quando ho cominciato a perquisirmi, quando mi han portato in carcere, erano sempre quelli".
Con i visitatori della casa, a volte, "ci scambiavamo delle buste, buste grandi o buste probabilmente con dentro i documenti che poi li vedevo, non li vedevo, le fotografie poi li vedevo e sì qualche volta è vero nella busta c'erano anche dei soldi che però li apriva Silvio quando tornava da me." Fotografie che raffiguravano "un po' di tutto, militari, civili che prendevano lezioni da paracadutisti".
"Però penso di aver visto anche tanti fogli, documenti con il timbro dell'arma dei carabinieri".
Ma "non li leggevo".
Anche l'ex Generale Francesco Delfino veniva in quell'appartamento, "probabilmente è venuto senza cappello, con la divisa".
Giacomazzi crede che "Delfino conosceva tutti quelli che frequentavano la pizzeria, conosceva il Buzzi, conosceva l'avvocato Fasano, conosceva il papà di Silvio. È rimasto sempre per me anche un mistero, però io mi ricordo questa cosa, per cui quando io l'ho visto in tutte le altre occasioni, era come se lo conoscessi da sempre". 


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© Imagoeconomica

La caserma di Parona

Mi sono recata a Verona con Silvio Ferrari "due o tre volte a Palazzo Carli e alcune volte nella caserma di Parona per cui tre o quattro volte, due o tre volte, sette totali". Lui "andava spesso in un condominio di cui io sono andata una volta sola ad accompagnarlo, ma ero rimasta giù da aspettare in un condominio perché lì aveva un buon amico" che "non ho mai visto".
La caserma Parona era dei Carabinieri all'epoca e "io mi ricordavo che dietro c'era un retro e poi che da quel retro si vedeva sotto che c'era una specie di cantina, c'era una griglia eccetera però la caserma era una caserma non come allora ma forse magari un po' più".
"Silvio entrava sia dalla porta principale e a volte anche dal retro. Adesso non mi ricordo più perché gli dico dal retro, perché gli avevo descritto il retro e era rimasto paro paro. Mi ricordo di essere andata almeno Due volte sicuramente, poi non mi ricordo tre. In pratica parlando con Gerardo mi sono ricordata la riunione più importante a cui partecipava Silvio e io c'ero presente”.
Giacomazzi ha raccontato che si recò nel seminterrato dove "c'era sempre il capitano Delfino". Ma una volta c'era anche "Nando Ferrari, una volta c'era sempre nella stessa riunione c'era Marco Toffaloni (condannato a trent’anni in primo grado per la strage dal tribunale dei minori ndr) c'era questo famoso Angelo Pignatelli” (un carabiniere e stava al SID, al servizio segreto di Verona ndr).


Le riunioni in caserma

In queste riunioni, ha spiegato la teste in aula, "si discuteva innanzitutto dell'attentato al Blu Note”. “Poi sempre in questi discorsi c'era questo Angelo Pignatelli che invitava Silvio a fare questa cosa in pratica e poi sempre in queste una o due riunioni, non lo so se nella stessa riunione o prima una o prima l'altra, dove invitavano Silvio ad andarsene a Milano per lavorare per loro".
Ma quando è andato via aveva stampato delle fotografie "che però Silvio aveva poi stampato e quindi aveva documentato tutto questo rapporto di Verona, Palazzo Carlio, eccetera, eccetera".
Poi me le aveva "consegnate".
Silvio Ferrari però, secondo la teste, non si fidava più di nessuno, sopratutto di Delfino: "Non si fidava di nessuno nel momento in cui voleva staccarsi. da questi personaggi, quindi penso che è quasi una logica che si volesse ritirare perché non si fidava più di nessuno, si sentiva non compromesso, si sentiva usato".
"Infatti mi consegna il plico di fotografie e di documenti perché dice vado a Milano ma poi poi cambio vita. Quindi doveva essere come l'ultimo atto adesso".

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