Nel pomeriggio di ieri si è tenuta alla quarta sezione penale del tribunale di Palermo l'udienza del processo d'Appello a Pino Maniaci dedicata alle arringhe della difesa, rappresentata dagli avvocati Bartolomeo Parrino e Antonio Ingroia.
Il procuratore generale Giuseppe Fici aveva chiesto alla corte d’Appello di Palermo nove anni e mezzo e 4 mila euro di multa per estorsione e diffamazione nel processo a carico di Pino Maniaci. Il volto storico dell'emittente televisiva Telejato di Partinico si trova imputato nel processo d'appello nato dall'operazione di polizia Kelevra del 2016. Maniaci in primo grado era stato assolto dalle accuse di estorsione e condannato per la diffamazione a un anno e 5 mesi nei confronti del giornalista Michele Giuliano, dell'artista Gaetano Porcasi e dell'operatore tv Nunzio Quatrosi. I magistrati di Palermo lo accusano di aver utilizzato il suo potere mediatico per fare pressioni su alcuni amministratori di Partinico e Borgetto per costringerli a pagare in cambio di interviste riparatorie alle gravi accuse da lui stesso lanciate nei loro confronti in tv. La dettagliata arringa dell'avvocato Ingroia, concentrata sugli aspetti giuridici e tecnici del processo, ha preso buona parte dell'udienza.
L'avvocato Parrino concluderà la sua arringa alla prossima udienza, fissata per l'11 marzo, incentrata su un approfondimento delle dinamiche e delle numerose contraddizioni emerse nella ricostruzione complessiva dei fatti, compresi quelli inerenti alle diffamazioni, e nel corso degli ultimi dibattimenti.
Contraddizioni sulle quali Ingroia si era già espresso definendole un "vuoto probatorio".
Oltre all'udienza di marzo, la corte si riserva per le settimane successive la pronuncia della sentenza.
Nella sua arringa difensiva Ingroia ha articolato un discorso teso a smontare l’impianto accusatorio, sostenendo che gli elementi costitutivi del delitto di estorsione non siano stati in alcun modo provati nel corso del procedimento evidenziando l’assenza di riscontri oggettivi alle tesi della pubblica accusa.
Al centro della sua difesa vi è il nodo cruciale della minaccia, elemento imprescindibile affinché si possa configurare il reato contestato. Ingroia ha sottolineato come nelle intercettazioni, spesso citate dall’accusa come prova a sostegno della presunta condotta estorsiva, non emerga alcun riferimento esplicito a minacce rivolte alla parte offesa. Né sul piano oggettivo né su quello soggettivo si riscontra l’intimidazione necessaria per alterare la volontà della presunta vittima. Il legale ha ribadito che affinché una minaccia possa ritenersi idonea a integrare l’elemento oggettivo dell’estorsione, essa deve essere tale da ingenerare nella vittima un timore concreto e attuale, in grado di costringerla a compiere un atto di disposizione patrimoniale contro la propria volontà. Nel caso in esame, tale nesso causale, secondo la difesa, risulta assente.
Un altro aspetto su cui si concentrata la difesa è stato il contenuto delle intercettazioni. Pur riconoscendo che alcuni stralci possano apparire a prima vista suggestivi, Ingroia rimarca come questi siano privi di riscontri fattuali. Non solo non vi è alcuna prova diretta di condotte minacciose, ma persino il comportamento successivo della parte offesa dimostra che non vi fosse alcuna reale intimidazione in atto. Secondo il legale la presunta vittima, infatti, avrebbe continuato a svolgere le proprie attività in maniera autonoma e senza manifestare segni di coercizione o di turbamento psicologico, circostanza che depone a sfavore della tesi accusatoria.
In foto di copertina da sinistra: Antonio Ingroia, Bartolomeo Parrino e Pino Maniaci © Telejato
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