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Il Guardasigilli difende la scarcerazione: “Mandato d’arresto pieno di errori”. Il governo avrebbe potuto agire diversamente?

La decisione del governo di scarcerare Mahmoud Almasri, accusato di tortura in Libia, ha aperto una questione complessa, intrecciata con scelte che appaiono soprattutto politiche, oltre che giuridiche e strategiche. Le contraddizioni emerse e le decisioni prese in coordinamento con Palazzo Chigi hanno infatti sollevato numerosi dubbi e perplessità sul reale obiettivo che potrebbe celarsi dietro la scelta di rilasciare il generale Almasri, ricercato dalla Corte Penale Internazionale con l’accusa di aver ucciso 34 persone e violentato un bambino nella prigione libica di Mittiga. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha difeso la scelta di rimpatriare Almasri con un volo di Stato, sostenendo che l’ordine di arresto presentava errori tali da comprometterne la validità. Poi, martedì 21 gennaio, Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministero della Giustizia, si è recata a Palazzo Chigi per concordare con il governo la strategia da adottare. È quindi evidente che la gestione del caso non sia stata una decisione isolata di Nordio, ma il risultato di una pianificazione -  come sottolinea anche Repubblica - coordinata con la presidenza del Consiglio e con il sottosegretario Alfredo Mantovano. Un altro elemento significativo è il ritardo nella risposta alla Corte d’Appello, accompagnato dal linguaggio ambiguo dei comunicati ufficiali e da una gestione comunicativa poco chiara. Tutti fattori che fanno pensare a una scelta deliberata di non collaborare con la CPI. Ad ogni modo, il governo italiano ha dovuto giustificare le proprie azioni. Nordio, pur trovandosi in una posizione delicata - essendo anche sotto inchiesta per omissione di atti d’ufficio - ha deciso di rilanciare la sua linea difensiva, annunciando l’invio di una lettera alla Corte Penale Internazionale per contestare la validità del mandato d’arresto. Il ministro elenca quelli che ritiene errori formali e sostanziali, tra cui incongruenze sulla data dei crimini contestati, salti logici nelle motivazioni e una contraddizione tra la parte argomentativa e le conclusioni finali del documento. “Quello è un mandato completamente sbagliato e, secondo me, addirittura nullo”, ha dichiarato il ministro.
Un altro tema che sta facendo discutere è l’intervento del Guardasigilli durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani a Milano, dove ha rilanciato la separazione delle carriere, affermando: “Più ci attaccano e più forza abbiamo per andare avanti”. Ha poi aggiunto: “In Parlamento mi è stato detto: ‘Vi siete attaccati a un cavillo giuridico e avete liberato un torturatore’. Come dire: poiché era un torturatore, legge o non legge, regole o non regole, dovevate tenervelo. Le regole vanno rispettate sempre - ha ribadito Nordio - non soltanto dal punto di vista sostanziale, ma anche formale. In questo caso coincidevano: è stata fatta una violazione di legge formale e anche sostanziale”. L’ostentata sicurezza del ministro sembra derivare non solo dalle sue considerazioni giuridiche, ma anche dal sostegno politico. Un esempio evidente è la dichiarazione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, secondo cui la richiesta di arresto della CPI non era mai stata trasmessa al ministero della Giustizia. Tuttavia, il mandato era stato inviato all’ambasciata italiana all’Aia e vi erano state numerose interlocuzioni tra la Corte e il ministero, così come tra il tribunale e le autorità italiane. Il governo, volendo, avrebbe quindi potuto gestire la questione in modo diverso, evitando la scarcerazione. Ma oltre alle perplessità, emergono anche alcune ironie. Nordio e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, hanno sostenuto che il documento era stato inviato solo in inglese. Tuttavia, il mandato era stato trasmesso anche in italiano il 19 gennaio, con una traduzione non giurata, e nuovamente il giorno successivo con una traduzione ufficiale. Un dettaglio, nemmeno marginale, che mina ulteriormente la difesa di Nordio e rafforza i sospetti di una gestione politica della vicenda, più che di una reale difficoltà procedurale.

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