Se Pier Paolo Pasolini fosse vivo oggi, sarebbe ancora il poeta di una società contraddittoria: un osservatore acuto della realtà, capace di dare voce a chi viene ignorato, emarginato, sfruttato. La sua attenzione sarebbe rivolta ai migranti che, attraversando deserti e mari in cerca di un futuro, trovano spesso solo miseria e discriminazione. La sua attenzione sarebbe rivolta alle vittime del genocidio in corso in Palestina, che avrebbe denunciato con forza puntando il dito contro le lobby della guerra, lui che “sapeva” anche laddove non vi erano prove. La sua attenzione sarebbe nel Donbass dove da anni si consuma una guerra per procura. E poi ancora: sarebbe in mezzo al fango di Valencia o dell’Emilia-Romagna a spalare gli effetti di un mondo al collasso causato dalla negligenza dei potenti. Vicino alla gente, agli “ultimi”, gli esclusi. Pasolini era una figura scomoda e ostile ai poteri forti. Ed oggi più che mai, a 49 anni di distanza dal suo omicidio, è importante ricordarlo per contrastare un mondo che corre verso il conformismo. Manca il coraggio di un uomo che non aveva paura di dire ciò che pensava, che ci ha insegnato quanto sia essenziale guardare il passato per comprendere il presente e costruire il futuro. Avrebbe ancora molto da insegnare, soprattutto sul valore dell’amore e della verità, concetti che oggi sembrano sbiaditi, al passo con la sinistra del Paese che ha lasciato una vasta prateria all’estrema destra verso Palazzo Chigi.
La responsabilità dell’omicidio del poeta e regista - avvenuto all'Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975 - fu attribuita solo a Giuseppe Pelosi, detto 'Pino la Rana', all'epoca diciassettenne, condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di prigione per omicidio volontario. Senza contare che nelle stesse sentenze di condanna ne viene sottolineata l'inattendibilità. Inoltre, a pena scontata lui stesso ha cambiato più volte versione fino a dichiararsi semplice "spettatore" del delitto, accusando persone scomparse o sconosciute, prima della morte arrivata nel 2017.
In primo grado il Tribunale dei minori stabilirà che si trattò di omicidio "in concorso con ignoti”. In appello i giudici replicheranno che della presenza di complici non ci sono prove, restituendo credito all'ipotesi iniziale e poi confermata in Cassazione. Il verdetto di secondo grado ammise, tuttavia, il "mancato appuramento" del movente e le successive indagini hanno determinato "l'incontrovertibile accertamento" di altri colpevoli. Almeno tre sono le tracce di Dna diverse da quelle di Pasolini e di Pelosi che sono state trovate sulla parte interna anteriore dei blue-jeans indossati dalla vittima, sulla maglia di “Pino la rana” e su un plantare ritrovato nella macchina del poeta. Perché allora addossarsi l'esclusiva responsabilità dell'omicidio?
Pasolini era sorvegliato dai servizi segreti: un rapporto del Sid del 1971 indicava infatti che il poeta, già noto al servizio, era considerato uno dei finanziatori del movimento extraparlamentare Lotta Continua. Il Sid stava dunque raccogliendo informazioni su Pasolini mentre il regista cercava di denunciare pubblicamente le responsabilità politiche legate alle stragi che insanguinarono l’Italia tra il 1969 e il 1974. Si trattava di atti di violenza connessi a movimenti neofascisti e ad apparati dello Stato. Non sono solo supposizioni: le sentenze per le stragi di Piazza Fontana (dicembre 1969) e di Piazza della Loggia (maggio 1974) mostrano come elementi dello Stato fossero coinvolti. Un esempio lampante è la condanna del generale Gianadelio Maletti per aver depistato le indagini sulla bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Inoltre, in relazione alla strage della stazione di Bologna, è stato esplicitamente citato Federico Umberto D'Amato, capo dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno, nonché uomo della CIA e Piduista.
E proprio alla luce di queste informazioni, non è plausibile attribuire l’intera responsabilità della morte del poeta a Pelosi.
Nel novembre 2023 la Procura di Roma ha rigettato l'istanza di riapertura dell'indagine sull'omicidio del poeta. A depositarla era stato l'avvocato Stefano Maccioni, a nome del regista David Grieco e dello sceneggiatore Giovanni Giovannetti: nell'atto si chiedeva ai pm di piazzale Clodio di approfondire in modo più compiuto la questione legata ai tre Dna individuati dai carabinieri del Ris nel 2010 sulla scena del crimine.
Cosa resta, allora, di Pasolini a 49 anni dal suo omicidio? Di certo, la sua memoria e il suo esempio di coraggio e determinazione. E un vuoto ancora da colmare. Quel contributo di verità e giustizia che, per assurdo, avrebbe bisogno proprio di Pasolini. Una persona in grado di avere uno sguardo complessivo dei percorsi storici, senza atomizzare i delitti eccellenti, le stragi, la politica. La verità avrebbe bisogno di Pasolini e del suo “sapere” anche laddove non vi erano prove ma “solo” - si fa per dire - nessi logici.
Foto © Archivio Letizia Battaglia
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