Il Dna sul guanto vicino al cratere di Capaci non è quello della donna
Il nome è quello di Nunzio Purpura, agente del Sisde di Palermo dal 1997 al 2004 deceduto due anni fa: sarebbe stato lui la fonte confidenziale che avrebbe fatto ritrovare la fotografia ritraente Rosa Bellotti all'ex sovrintendente della polizia di Alcamo Antonio Federico, indagato, com'è noto da luglio scorso, per depistaggio dalla Procura di Caltanissetta.
La notizia è stata riportata dal quotidiano 'la Repubblica'.
Nello specifico Antonio Federico, secondo l'accusa, rappresentata dal pm Pasquale Pacifico, avrebbe rivelato alla Procura di Firenze, diversamente da quella di Caltanissetta, il nome della fonte che gli avrebbe consegnato la foto, appunto Purpura, indicato anche lo pseudonimo di "Mark".
Perché questa riserva con i magistrati fiorentini?
Ricordiamo che Rosa Belotti è indagata dalla Dda di Firenze e che secondo i magistrati sarebbe (sottolineiamo il condizionale) “l’esecutrice materiale che ha guidato la Fiat Uno grigia imbottita di esplosivo sottratta alla proprietaria (…) condotta in via Palestro per colpire il PAC” (Padiglione d'Arte Contemporanea ndr) nell'ambito della strage a Milano del 27 luglio 1993. Circostanza che la donna ha sempre negato.
Ma le accuse dei pm nisseni ad Antonio Federico si riferiscono anche ad un'altra ipotesi: avrebbe avuto, secondo i pm, una antica conoscenza con Belotti.
L'avvocato alcamese Vito Galbo che difende Federico, oggi in pensione, ha affermato invece che il suo cliente non l'ha mai conosciuta e che, in merito alla fotografia, la consegnò "al suo dirigente che la tenne per tre anni e poi invece di distruggerla se la prese".
Perché, è la domanda, fece ritrovare la foto della donna?
E perché rivelò il nome della fonte a Firenze e non a Caltanissetta?
Sta di fatto che il nome di Purpura era già uscito nel dicembre 2016, al processo trattativa Stato-mafia: si era tenuta la deposizione di Salvatore Bonferraro, sostituto commissario di Polizia che fu tra gli investigatori che si occupò delle indagini sulla strage di Capaci.
In aula, di fronte alla Corte d'Assise, raccontò gli accertamenti svolti nel corso del tempo da cui emerse che, proprio nell'appartamento di fronte a quello in cui si trovavano Gioacchino La Barbera (poi divenuto collaboratore di giustizia) e Antonino Gioé (morto suicida in carcere in circostanze misteriose nell'estate del 1993), aveva trovato riparo Salvatore Benigno, uomo d'onore della famiglia di Misilmeri, condannato all'ergastolo in quanto responsabile per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano.
Non solo. Sempre Bonferraro riferì di aver visto in quel palazzo anche la presenza di esponenti dei servizi segreti, tra cui Purpura. “E' successo un fatto durante un cambio serale - raccontò nel 2016 - La sera del sedici marzo 1993 scesi in ascensore e quando si aprirono le porte del piano terra mi trovai due persone che erano del Sisde. Si trattava di Nunzio Purpura, funzionario del centro Sisde di Palermo, e Antonina Lemmo, anche lei appartenente al Sisde che diventò poi sua moglie. In merito a questo incontro feci anche una relazione di servizio il giorno successivo”. Ma non fu quello l'unico episodio “inconsueto”. “Parlando con un collega, descrivendo le fattezze del Purpura - ha aggiunto Bonferraro - mi disse di aver incontrato questa persona mentre facevano un servizio di osservazione su Giovanni Scaduto. Scaduto si incontrava giornalmente con Gioé e La Barbera ed è il genero di Salvatore Greco, detto il Senatore. Fa parte dello stesso gruppo di Gioé. Ebbene mentre loro osservavano lo Scaduto il Purpura li guardava. Addirittura si accorsero di essere seguiti durante un pedinamento”.
Strage di Capaci e strage di Milano
Per entrambe le stragi ci potrebbe essere stato il coinvolgimento di figure femminili: per l'eccidio del 23 maggio 1992 è stato ritrovato un guanto - accanto al cratere - dal quale è stato estratto del DNA femminile ma che non è stato ancora identificato.
Per ora una cosa è perfettamente chiara: dagli esami, riporta ‘Repubblica’ effettuati dagli investigatori, si è ormai certi che il Dna non è quello di Rosa Bellotti.
La donna avrebbe ammesso di essere la stessa ritratta nella foto trovata nel settembre del 1993 ma ha anche negato nettamente di avere a che fare con la strage di via Palestro, precisando di essere estranea ai fatti contestati.
Il criminologo Federico Carbone ha scoperto un documento secondo il quale "nel 1993 cinque donne facevano parte della VII divisione del sismi i cui componenti erano molti di più di quei 16 conosciuti attraverso la cosiddetta lista Fulci".
“Le donne - si legge nel libro 'Le donne delle stragi' - sono nella stessa lista dei militari sospettati e mai indagati per l’indagine sulla Falange armata”. Addirittura, secondo una fonte riservata, “di queste cinque agenti, oggi almeno tre sarebbero ancora in servizio” e sarebbero anche state rintracciate dagli autori che al contempo si chiedono: “Per il loro ruolo di istruttrici Gladio, avrebbero potuto aver addestrato e quindi conoscere i profili femminili sospettati di aver partecipato agli attentati di Capaci, Roma, Firenze e Milano?”.
La pista sulla presenza di figure femminili nei luoghi delle stragi si rafforza con la presenza, appunto, di DNA su un paio di guanti di lattice a pochi metri dal cratere di Capaci; o ancora le testimonianze sulla presenza di donne viste prima delle esplosioni in via Fauro; nei pressi di via dei Georgofili e in via Palestro.
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