Sto guardando le riprese del festival di Venezia. Sono passati vent’anni dall’uscita del film I cento passi. Una storia che ha incantato la gente, ha commosso sino alle lacrime adulti e ragazzi, alunni e insegnanti, gente di strada e professionisti. Grazie al film tutto il mondo ha conosciuto Peppino Impastato, la sua famiglia, il suo paese, la sua lotta politica, i suoi compagni. Chi fa un confronto tra le decine, un centinaio nel migliore dei casi, di persone che partecipavano alle iniziative del 9 maggio e le migliaia di giovani in strada dopo il 2000, anno dell’uscita del film, si può rendere facilmente conto che una persona, così come qualsiasi cosa, esiste se se ne parla e se si individuano gli elementi per parlarne. Giordana li ha saputi trovare. Fra l’altro non ha dovuto faticare molto. Va detto che il film non avrebbe potuto essere possibile senza il precedente lavoro politico di salvaguardia della memoria, fatto dai compagni.
E tuttavia il popolo degli oltranzisti, dei puri a qualsiasi costo, ancora oggi trova da ridire: qualcuno si trincera dietro la definizione dell’“icona” del film che ha vinto sulla realtà, qualche altro lamenta lo spazio dato ad alcuni personaggi, anziché ad altri e a se stessi, qualche altro ancora lamenta la mancanza della sigla Lotta Continua e così via. Se poi si chiede, nel dettaglio, che cosa non va nel film, in che cosa l’immagine di Peppino interpretata da Luigi Lo Cascio è difforme da quella reale, nessuno lo sa dire: la storia c’è tutta, dallo zio capomafia Cesare Manzella, ai difficili rapporti con il padre, alla presenza vigile e affettuosa della madre, alle lotte dei contadini di Punta Raisi, alle mostre fotografiche, al Circolo Musica e Cultura, alle ragazze del collettivo, allo scontro con i “creativi”, alla campagna elettorale, alla Radio, alla morte del padre, al delitto, al depistaggio delle indagini. Non so che cos’altro si potesse volere in un’ora e venti minuti di proiezione. Ho scritto un lungo articolo su «Antimafia Duemila», su “Ciò che è vero e ciò che è falso ne I Cento passi”. Non perché sia un cultore del vero a qualsiasi costo, ma per far notare che le eventuali diversioni del vero in verisimile, nella cinematografia sono d’obbligo e che, nel nostro caso, non inficiano la positività, per certi versi la genialità dell’insieme.
Ho avuto la fortuna di essere stato interpretato da un bravo attore, Claudio Gioè, ma ho sempre detto che tra il “Salvo” dei Cento passi e il Salvo reale ci sono differenze abissali. Per contro, sono diventato il bersaglio di campagne diffamatorie da parte di chi sosteneva che ero responsabile di quella storia e di quella sceneggiatura che aveva messo da parte gli altri compagni, con la ricorrente accusa di autoreferenzialità, quasi che parlare e raccontare momenti in cui si è stati presenti fosse una colpa. I più maligni, hanno fatto di tutto per dimostrare che non c’ero e che, nella storia di Peppino, ero “un corpo estraneo”. Ho frequentato gli ambienti extraparlamentari e so bene di cosa sono capaci, quali miserabili vi si aggirano, cosa c’è dentro, ne conosco l’intolleranza, la rancorosità, in alcuni casi il fanatismo, ma anche la difficoltà a uscire da se stessi, dal proprio mondo o da quello del piccolo gruppo di cui si fa parte, per mettersi in gioco e costruire assieme ad altri una realtà in cui vorremmo vivere felici. Ognuno ha la pretesa di essere il solo detentore del verbo incarnato e da questa certezza giudica le altre posizioni erronee, pericolose, complici del nemico. Quelli di Cinisi non sono migliori: nel corso degli anni li ho visti identificare come nemici alcuni compagni legati da un lungo percorso comune. E fino lì ci siamo. Ma quando si pretende di mistificare i fatti, di arrampicarsi sugli specchi, di ricorrere alla calunnia e al discredito, senza neanche una spiegazione sui motivi di tali esplosioni di stupidità, credo che ci sia ben poco che possa ricollegare questa gente a Peppino e alle sue lotte sociali. In quanto all’“icona”, penso che non esista o che, se c’è, non arrechi alcun danno all’immagine di Peppino. Non sarà certo la percorrenza dei famosi cento passi o la canzone dei Modena City Ramblers a rendere icona una persona uccisa per la sua precisa e decisa volontà di vivere in una società senza mafia. Non sarà il suo viso su una maglietta o una visita alla sua casa a creare un’icona, e anche se lo fosse, non ci vedo nulla di strano. Così come è senza senso l’affermazione che sento ripetere da qualche severo critico del film: «Peppino non aveva bisogno di fare cento passi per scoprire la mafia, perché la mafia ce l’aveva dentro». Peppino non fa i cento passi per scoprire la mafia, ma per dire a suo fratello che la mafia è così interna al nostro tessuto sociale e i mafiosi sono così vicini che occorre ribellarsi prima di diventare come loro! E siamo sempre, in modo patologico, all’accusa di “appropriazione indebita”, nei confronti di chi è ritenuto estraneo a una storia, ma, che, sentendola propria, cerca di esserne coinvolto.
Al di là del ruolo reale si dà a se stessi quel ruolo che si è immaginato di avere. Agli altri rimane ben poco, anche perché toglierebbero luce alla propria luce, al faro, e pertanto bisogna sminuirne l’importanza.
Tratto dal libro di Salvo Vitale: “Cento passi avanti e qualche passo indietro”, edizioni IOD Napoli, 2024 pag. 295
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