Gianluca Di Feo incontrò il magistrato una ventina di giorni prima di essere ucciso: “Disse che era tra i pochi in grado di riciclare grandi somme”
“Sono tanti gli imprenditori in grado di riciclare 10 milioni di lire, ma se devi riciclare 10 miliardi di lire gli imprenditori che possono farlo si contano sulle dita di una mano e uno di quelli che avrebbe questa capacità è Silvio Berlusconi”. A 32 anni dalla strage di via d’Amelio emergono nuove riflessioni di Paolo Borsellino su Silvio Berlusconi, allora ancora solo un ricco imprenditore. Le parole del magistrato ucciso da Cosa nostra sull’ex premier defunto sono state raccolte dal giornalista Gianluca Di Feo e riportate ieri da Il Fatto Quotidiano con un articolo a firma di Marco Lillo. L’intervista avviene il 30 giugno 1992, nel mezzo di quei 57 giorni concitati che separano la strage di Capaci con quella di via d’Amelio.
L’inviato era stato infatti mandato a Palermo per approfondire le vicende di mafia e riciclaggio al Nord. Di Feo ricorda che chiese a Borsellino di Giuseppe Lottusi, finanziere arrestato l’ottobre dell’anno precedente con l’accusa di aiutare la mafia a riciclare i soldi del traffico di droga. Il magistrato però, alla domanda su Lottusi, tirò fuori all’improvviso il nome di Berlusconi.
Di Feo, però, in quell’occasione non approfondì la cosa anche perché i legami tra mafia e Berlusconi verranno fuori, nella loro gravità e notorietà, solo anni più tardi. Ad aprile 1994, dopo la vittoria di Berlusconi con Forza Italia alle politiche, L’Espresso pubblicò stralci nell’intervista esplosiva fatta a Borsellino dai colleghi francesi Pierre Moscardo e Jean Claude Zagdoun. Un’intervista a lungo censurata in Italia, come in Francia. I due giornalisti parlarono con Borsellino il 21 maggio 1992 due giorni prima della strage di Capaci, il magistrato svelò di avere vaga notizia di un’indagine a Palermo su Marcello Dell’Utri (braccio destro di Berlusconi e co-fondatore di Forza Italia) e Vittorio Mangano (boss mafioso, spacciato per stalliere della villa di Berlusconi ad Arcore). Alla domanda se Berlusconi fosse coinvolto disse di non saperne nulla e di essere comunque vincolato al segreto. Definì però il fattore della villa di Arcore di Berlusconi nel 1974 una “testa di ponte” della mafia al Nord. Sempre dopo la sua morte e l’uscita dell’intervista dei francesi si scoprì che non esistevano indagini sull’imprenditore milanese e il suo socio palermitano. C’era solo un proscioglimento milanese su Dell’Utri del 1990 per una presunta associazione a delinquere fino al 1982 con Mangano.
Paolo Borsellino
Tornando a Di Feo, questo è il racconto del giornalista: “Tutto inizia con un mio articolo su un traffico di armi uscito a giugno 1992. Al centralino del Corriere arriva una telefonata anonima che mi mette in guardia con una velata minaccia. Su quella storia erano volate mazzette riciclate negli stessi canali seguiti dalla mafia. Se ne stava occupando Falcone prima di saltare in aria. I miei capi mi suggerirono di andare a parlarne con Borsellino. Tramite un ufficiale dei carabinieri di Milano, Nicolò Gebbia, venerdì 26 fissai un appuntamento con lui per il 29 giugno, lunedì, nel suo ufficio a Palermo. Alle 16 ero lì, ma aspettai Borsellino invano. Non c’era e i suoi collaboratori mi dissero che non era raggiungibile anche per loro. Alle 20 andai all’hotel Villa Igea deluso. Borsellino mi rispose verso le 22 sul cellulare. Si scusò. Mi disse che aveva avuto un impegno non previsto. Mi diede un nuovo appuntamento a casa sua alle 7 e 30 perché poi doveva volare a Roma. L’incontro durò mezzora circa e questo è quel che ricordo: Agnese ci fa un ottimo caffè. Borsellino mi fa accomodare in un salone luminoso. Gli faccio sentire la telefonata sul mio registratore e gli chiedo se Falcone si stesse occupando davvero di armi e riciclaggio. Lui ascolta con atteggiamento paterno, avevo 25 anni allora, e mi dice che non mi può aiutare perché non sa nulla di quel che stava facendo Falcone. Sui traffici di armi di quel tipo mi dice che non interessano a Cosa Nostra. Il riciclaggio invece sì. Allora io porto il discorso sui canali comuni del riciclaggio dei soldi sporchi di corruzione, imprese e mafia. In quel contesto lui mi dice che quelle figure vanno cercate a Milano e il problema non è trovare chi ricicla piccole somme, ma cercare le figure in grado di riciclare miliardi di lire. Io gli dissi di Lottusi, che lui conosceva bene. Mi rispose che le figure da vedere sono di altro tipo e lì mi fa come esempio il nome di Berlusconi. Quel nome lo tira fuori lui. Io parlai solo di Lottusi. Lui passò da Lottusi a Berlusconi con un guizzo negli occhi. Disse una cosa tipo: ‘Bisogna guardare a figure come Berlusconi, che avrebbe le capacità economiche per fare questo tipo di operazioni’. Attenzione era un esempio. Non disse che indagava su Berlusconi. Non disse che avrebbe voluto farlo. Non parlò di Mangano o Dell’Utri. Perché non scrissi nulla? Era un colloquio confidenziale. E poi per me Berlusconi allora rappresentava Canale 5, il Milan, una realtà lontana da Palermo. Dopo la morte non aveva senso tirar fuori il nome di Berlusconi così. Nel 1994 quando ho letto i passaggi dell’intervista ‘sparita’ di Canal Plus su L’Espresso ci ho pensato e mi son detto che non avrei aggiunto molto. Ci ho ripensato quando una fonte della Direzione Nazionale Antimafia mi fece capire che lavoravano sulle stragi di mafia su una pista che portava a Berlusconi”.
Gianluca Di Feo
La Procura di Caltanissetta ha archiviato diversi anni fa la pista che vedeva indagati Berlusconi e Dell’Utri come mandanti delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Ora invece è concentrata sulla controversa pista mafia-appalti quale movente della strage di via d’Amelio, che vede anche i legami con imprese vicine alla mafia della Calcestruzzi di Raul Gardini. Riporta Il Fatto Quotidiano che il 30 giugno, mentre Di Feo aspettava Borsellino in Tribunale, il magistrato stava parlando con Fabio Salamone, allora pm ad Agrigento nonché fratello dell’imprenditore Filippo Salamone, uno dei protagonisti secondo il Ros del sistema del tavolino ‘Mafia-appalti’. I due magistrati, secondo Agnese Borsellino, “rimasero nello studio in un colloquio riservato per circa tre ore”. Borsellino avrebbe detto a Salamone salutandolo sulla porta: “Io ti consiglio di andar via dalla Sicilia”. Salamone dà una ricostruzione diversa: “Il colloquio sarà durato un’oretta circa. (…) lui riteneva a rischio la mia situazione e mi invitò a venire a Palermo (…) mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello (…)”. Il 30 giugno 1992, subito dopo aver visto Di Feo, Borsellino va a Roma per interrogare il collaboratore di giustizia Leonardo Messina tra l’altro su un appalto messo a posto con Angelo Siino, arrestato un anno prima per il rapporto ‘Mafia-appalti’ del Ros. Il 1º luglio 1992, ricorda Il Fatto, Messina dice a verbale che Totò Riina “è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale”. Però nei successivi interrogatori non gli fa domande sulla Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi. Sulla vicenda, riporta sempre Il Fatto Quotidiano, Di Feo precisò che “Borsellino, quando parlammo di riciclaggio al Nord, mi fece il nome di Berlusconi, non quello di Gardini”.
(21 Agosto 2024)
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