L'intervista esclusiva del Corriere della Calabria al pm del processo "Trattativa Stato-mafia"
Questo articolo, che riproponiamo ai nostri lettori, è stato scritto in data 09-08-2024.
"Mi piacerebbe rivolgermi ai giovani incoraggiandoli a non perdere la memoria. Il nostro sta diventando sempre più un Paese senza memoria. Un Paese dove la memoria non viene coltivata, promossa, a mio avviso è destinato a essere un Paese senza futuro". Inizia così la lunga intervista del Corriere della Calabria al sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. Rispondendo alle domande di Emiliano Morrone, il magistrato palermitano ha rivolto particolare attenzione alle giovani generazioni e al loro ruolo nel portare avanti il testimone della memoria storica.
"Fare memoria non può significare soltanto ricordare in maniera emozionale - certe volte anche in maniera retorica - i nostri morti, ma cercare di capire quello che è accaduto", continua Di Matteo.
Il suo augurio è che i giovani "si interessino e capiscano" la storia della Repubblica, "perché quello è un passato che continua con il nostro presente. E noi dobbiamo sforzarci di capire, di comprendere; anche per evitare che la mafia, come è sempre stato finora, diventi non soltanto un problema di ordine pubblico ma un fattore molto pesante di condizionamento della nostra democrazia, della nostra libertà, della nostra dignità di Paese e di singoli cittadini".
La campagna stragista che colpì l’Italia nel biennio ’92–‘94, ad esempio, “è connotata da una forte motivazione politica: fu una strategia politica attraverso la quale Cosa nostra e le altre organizzazioni mafiose evidentemente intendevano ridisegnare gli equilibri con il potere politico, istituzionale e ufficiale, che erano stati messi in crisi dopo la sentenza del Maxiprocesso", aggiunge.
Per interessarsi a questi temi, però, i ragazzi "hanno bisogno di punti di riferimento, hanno bisogno che noi adulti possiamo apparire ai loro occhi non come autorevoli ma come credibili". Perché "non è vero che i giovani sono tutti disinteressati, che sono tutti rinchiusi nel loro aspetto egoistico-edonistico della vita, in una visione che sia soltanto ed esclusivamente individualistica - spiega il magistrato -. Quando mi confronto con i giovani, cerco semplicemente di stimolarli a non accettare di diventare gregge; di stimolarli a conoscere per cercare di formarsi la loro idea; di stimolarli a non rassegnarsi; di infondere loro fiducia perché loro possono cambiare il mondo, senza abbandonarmi ai paternalismi".
Strage di Capaci
"La mentalità mafiosa - sottolinea - può essere sconfitta, ancora prima della mafia militare, soltanto se i giovani abbandoneranno la subcultura del favore, della raccomandazione, dell’appartenenza lobbistica o massonica come strumento per farsi avanti nella vita; soltanto se sapranno anteporre ai loro interessi egoistici l’interesse, la libertà e la dignità di tutto il popolo".
Di Matteo negli anni ha indagato non solo sull'ala militare di Cosa nostra ma anche sui rapporti che la stessa aveva intrattenuto e consolidato con apparati di potere istituzionale. inoltre, è stato pm di punta del pool che ha istruito il processo "Trattativa Stato-mafia" a Palermo.
"La forza delle mafie è sempre stata quella di sapersi rapportare con il potere ufficiale e istituzionale; se del caso anche attraverso dei veri e propri accordi sotterranei - continua -. Quando si parla di trattativa tra lo Stato e la mafia, bisogna affondare alle radici di questo concetto, molto in là nel tempo: forse, sino al momento in cui, alla conclusione della Seconda guerra mondiale, lo sbarco degli alleati in Sicilia venne favorito, appoggiato, condiviso dai capi mafia di allora, che in carcere ricevettero un trattamento di favore". "Io mi sono occupato, insieme ad altri colleghi, di una delle fasi della Trattativa Stato-mafia e voglio dire che, al di là della conclusione dei processi – in primo grado tutti condannati; in secondo grado condannati i mafiosi e assolti gli uomini dello Stato; poi la sentenza della Cassazione, che con un colpo di spugna ha cancellato anche le condanne dei mafiosi – c’è un dato di fatto che nessuno potrà mai smentire - continua Di Matteo -. Subito dopo la strage di Capaci, del 23 maggio del ’92, alti esponenti delle istituzioni, alti esponenti del reparto investigativo dei carabinieri, del Ros dei carabinieri, contattarono Vito Ciancimino – sindaco di Palermo, ma già all’epoca mafioso riconosciuto tale per sentenze – e gli chiesero di contattare, a sua volta, Riina e Provenzano per capire che cosa questi volessero per far cessare la strategia dell’attacco violento alle istituzioni, che era cominciata con l’omicidio Lima a marzo del 1992 e poi con la strage di Capaci".
© Paolo Bassani
In quegli anni "c’era il sangue dei morti, il sangue delle vittime della strage di Capaci, in particolare sull’asfalto dell’autostrada vicino a Palermo. Lo Stato cercò di capire che cosa volessero per farla finita con quella strategia - spiega il sostituto procuratore nazionale antimafia -. E un altro dato di fatto, che è consacrato pure in sentenza definitiva, è che quell’atteggiamento dello Stato convinse Riina e gli altri capi mafia di allora che era quella la strategia giusta; che bisognava continuare e, in quest’ottica, non più soltanto mafiosa, ma terroristico-mafiosa, furono ideate, concepite, organizzate, eseguite le stragi del 1993. Lo Stato, cercando la mafia, aveva cominciato a piegare le ginocchia. In un’ottica di ricatto, la mafia sposa l’obiettivo delle stragi in continente, come diciamo noi siciliani, e quindi a Roma, a Firenze e a Milano, ma non più per colpire singoli bersagli predeterminati, ma con uno scopo terroristico, per gettare nel panico la popolazione".
Nino Di Matteo intravede “un grande tentativo di presentare la storia – soprattutto con riferimento al fenomeno mafioso – in termini tutto sommato più tranquillizzanti, più rassicuranti, cioè: da una parte i cattivi, dall’altra parte i buoni che alla fine hanno vinto la guerra contro i cattivi - spiega -. La storia purtroppo è altra, ed è una storia in cui molto spesso lo Stato e le istituzioni statali hanno accettato, se non addirittura hanno cercato, il dialogo con la mafia, consegnando alle mafie – in questo modo – un’arma più potente di mille chili di tritolo o di migliaia di Kalashnikov: l’arma del ricatto. Io credo che da uomo di Stato, da cittadino di questo Paese, dobbiamo deprecare quello che sta accadendo ora: una sorta di colpo di spugna, di oblio liberalizzato che vuole rappresentare come fandonie e come teoremi di pochi magistrati politicizzati tutti quegli aspetti che invece sono venuti fuori in anni e anni d’indagine su rapporti pericolosi – e sicuramente oltre la legge – tra la mafia e lo Stato".
Per contrastare il revisionismo storico per il magistrato sono necessari "un giornalismo d'inchiesta serio" - che non si limiti agli aspetti folkloristici delle organizzazioni mafiose - e un ruolo protagonista delle giovani generazioni sul tema. Solo così si potrà realizzare "il grande auspicio di Giovanni Falcone – 'la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio e avrà una fine' – si potrà realizzare. Soltanto attraverso una vera e propria rivoluzione culturale, prima di tutto. Una rivoluzione culturale che deve partire dai cittadini, che deve partire soprattutto dai più giovani. Una rivoluzione culturale che rovesci il tavolo della mentalità mafiosa".
Foto di copertina © Paolo Bassani
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