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Fabio Repici: “L’agenda rossa non è stata sottratta da mani mafiose, ma dalle mani di rappresentanti dello Stato”

Sono trascorsi trentadue anni dalla strage di via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino, insieme ai cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina. Una strage annunciata, avvenuta appena cinquantasette giorni dopo quella di Capaci, quando l'autostrada A29, che collega Palermo a Mazara del Vallo, venne sventrata da circa 500 chili di tritolo per fermare il giudice nemico della mafia, Giovanni Falcone. Insieme al giudice Falcone persero la vita anche sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Trentadue anni dopo, quel 19 luglio 1992 rimane un ricordo indelebile, impresso nella mente di chi ha vissuto quei momenti difficili, soprattutto per chi, con il giudice Borsellino, era unito da legami di sangue. Tra questi, anche Salvatore Borsellino, il fratello del giudice, che ha più volte definito la strage di via d’Amelio una “strage di Stato”. Di recente, Salvatore Borsellino, promotore del “Movimento Agende Rosse”, ha parlato di quei 57 giorni all’interno del documentario “Paolo Borsellino e il mistero dell'agenda rossa”, realizzato dal videogiornalista Antonio Nasso per il gruppo GEDI, con parole cariche di dispiacere e malinconia, ma anche di speranza: quella che un giorno la verità che si nasconde dietro la strage di via d’Amelio possa finalmente venire a galla, portando così alla luce segreti indicibili di un’Italia incapace di dare giustizia ai suoi martiri. “Quando mi sono trasferito al Nord - ha detto Salvatore Borsellino - ho creduto di essermi lasciato alle spalle tutto quello che non mi piaceva di Palermo: una città dove la mafia dominava. Paolo mi chiamava per chiedermi di tornare a casa e io gli rispondevo: ‘Ma cosa torno a fare in quella città?’. Poi, tre giorni prima che uccidessero mio fratello - ha ricordato Borsellino - fui io a dirgli: ‘Per carità, vai via da quella città. Fatti trasferire a Torino, Milano, a Firenze, dove vuoi, ma vai via da quella città perché se resti lì ti ammazzano’. Questo perché sapevamo tutti quello che sarebbe successo. Ma mio fratello mi rispose: ‘Io non accetterò mai di fuggire. Terrò fede al giuramento che ho fatto allo Stato fino all’ultimo’”. E aggiunge: “Paolo inizia a morire dopo la morte di Falcone. Ricordo che, quando Paolo guardava qualcuno, sembrava che guardasse alle spalle di quella persona: da dove sarebbe potuta arrivare la morte in qualsiasi momento”.


Antonio Ingroia: “Il 1992 è stato un anno cruciale per il Paese”

Quando si parla del 1992 e delle stragi di mafia, inevitabilmente il pensiero va anche al Maxiprocesso, il più grande mai celebrato contro Cosa Nostra, in grado di abbattere “definitivamente e inesorabilmente il mito dell’impunità dei mafiosi”. A ribadirlo è l’ex pm antimafia Antonio Ingroia, oggi brillante avvocato, che ha lavorato nel pool antimafia insieme a Falcone e Borsellino. “Il Maxiprocesso ha colpito tutto il gotha di Cosa Nostra. Alcuni in carcere come Michele Greco, detto ‘il Papa’, altri, invece, all’epoca latitanti come Totò Riina e Bernardo Provenzano, incluse le contiguità, come quelle rappresentate dall’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Questo perché - ha precisato Ingroia - le indagini di Falcone e Borsellino riuscirono a colpire anche i livelli più alti. Il 1992 - ha aggiunto - è stato sicuramente un anno cruciale per la storia del Paese. Ho vissuto abbastanza da vicino tutto il periodo che va dalla strage di Capaci a quella di via d’Amelio. Borsellino credeva molto nel principio del pool antimafia”, e nella logica di dover condividere le informazioni con altri colleghi. Tuttavia, nell’ultimo periodo si era chiuso in se stesso, “forse per proteggere quelli di cui si fidava, per questo motivo annotava le informazioni nel suo diario: la famosa agenda rossa”.


Fabio Repici: “Guardando Paolo Borsellino, ho visto un cadavere che camminava”

Del 1992 ha un ricordo nitido anche l'avvocato Fabio Repici, all’epoca 22enne. Nel corso della sua carriera, Repici si è dedicato con passione alla difesa delle vittime di ingiustizie legate alla mafia, tra cui Salvatore Borsellino per la strage di via d'Amelio. “Ricordo l’esperienza quasi traumatica dell'ultimo discorso in pubblico fatto da Paolo Borsellino. Ricordo le sue parole: di una chiarezza e di una durezza - ha sottolineato Repici - davvero impressionanti. Sembravano le parole di chi sapeva a cosa andava incontro. Ricordo che quella sera, vedendo Borsellino andare via da quell’incontro, ebbi l’impressione di vedere un cadavere che camminava.” - prosegue - “La strage di via d’Amelio non aveva come unico obiettivo solo l’eliminazione fisica di Borsellino, ma anche quella di poter eliminare qualsiasi riflessione fatta dallo stesso sulla strage di Capaci, insieme a qualunque scoperta possa aver fatto il giudice”.  Circostanza che si lega perfettamente alla scomparsa dell’agenda rossa. “Mi ricordo quando Borsellino disse di essere testimone; che alcune cose non le poteva riferire perché le avrebbe dovute riferire, in qualità di testimone, alla Procura di Caltanissetta, che stava procedendo sulla strage di Capaci”. Purtroppo, Borsellino non riuscirà mai a testimoniare. La sua testimonianza, infatti, non è mai stata raccolta dalla Procura di Caltanissetta, mentre le sue parole scritte all’interno dell’agenda rossa furono sottratte in via d’Amelio il 19 luglio del 1992. “È così che la voce di Paolo Borsellino - ha sottolineato Repici - si perse”.
Riguardo al momento in cui l’agenda rossa è sparita, Fabio Repici ha precisato che sussistono alcuni dati certi. “Il primo riguarda il fatto che l’agenda si trovava all’interno della borsa di Paolo Borsellino quando, nel pomeriggio del 19 luglio 1992, il giudice è arrivato in via d’Amelio”. Certe sono anche le immagini che raffigurano l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli circa mezz’ora dopo l’esplosione, “con in pugno la borsa del giudice, mentre si allontanava dal luogo dell’esplosione: attività - ha ribadito - che Arcangioli ha svolto senza mai redigere una relazione di servizio”. E aggiunge: “Il capitano Arcangioli è stato sottoposto a processo per il furto dell’agenda rossa. In udienza preliminare, il gup di Caltanissetta ha prosciolto Arcangioli per non aver commesso il fatto. La Cassazione ha rigettato il ricorso della Procura di Caltanissetta. Così è terminato il processo a carico di Arcangioli”. Tuttavia, le immagini parlano chiaro sulle modalità e le tempistiche con cui l’agenda rossa di Paolo Borsellino è sparita dalla sua borsa. “La borsa del giudice - ha precisato Repici - è stata asportata dal capitano Arcangioli. Altro dato certo è che l’agenda non è stata sottratta da mani mafiose, ma dalle mani di rappresentanti dello Stato, che probabilmente, con i segreti presenti all’interno dell’agenda rossa, hanno giocato un’attività di ricatto che potrebbe aver inciso negli equilibri con cui è stata costruita la seconda repubblica”.

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