A ordinare l'assassinio fu il potente banchiere legato a Cosa nostra. Dopo l’omicidio Andreotti disse che “era uno che se l’andava a cercare"
Milano, notte del 11 luglio 1979. L’avvocato Giorgio Ambrosoli stava tornando al suo appartamento dopo aver riaccompagnato gli amici che avevano passato la serata insieme a lui a vedere la box in tv. In via Morozzo della Rocca 1, un soggetto gli si avvicina mentre era in macchina: "Il signor Ambrosoli?". "Sì". "Mi scusi signor Ambrosoli". Partono quattro colpi di pistola al petto, esplosi da una 357 Magnum che mettono fine alla vita dell’avvocato 44enne. A 45 anni di distanza dall’agguato, il ricordo di familiari, amici, colleghi e società civile milanese è ancora vivido. Ambrosoli era “un professionista onesto la cui unica colpa era quella di svolgere con competenza il delicato compito, conferitogli dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli, di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, la banca di Michele Sindona”, è il ricordo di Mario Consani, collega di Ambrosoli. La “colpa” di Ambrosoli, infatti, era quella di aver inferto un duro colpo alle casse di denaro illecito di Michele Sindona, potente banchiere legato a Cosa nostra. Lo stesso che poi ordinò l’omicidio.
Un passo indietro nella storia. Giorgio Ambrosoli nacque a Milano nel 1933 in una famiglia borghese, rigidamente cattolica. Da ragazzo, frequentò il Liceo classico "Manzoni" di Milano e si avvicinò all’Unione monarchica italiana. Raggiunta la maturità, dopo la guerra, che lo fece sfollare assieme alla famiglia, nel 1952 decise di seguire le orme del padre Riccardo, avvocato impiegato nell’ufficio legale della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, iscrivendosi alla Facoltà di Giurisprudenza alla Statale, mentre intensifica l’impegno nell’UMI. Si laurea nel 1958 con una tesi sul CSM, incentrata sul tema dell’indipendenza del magistrato, poi sostiene l’esame da Procuratore (che allora era il primo passo verso l’avvocatura) e cominciò a fare pratica nello studio legale Cetti Serbelloni.
Nel 1962 si sposò con Anna Lori dalla quale ebbe tre figli, Francesca, Filippo e Umberto. Due anni dopo le nozze, la specializzazione in ambito fallimentare, che consacrò la sua carriera, e in particolare nelle liquidazioni coatte amministrative. Tra i primi incarichi importanti, venne scelto per cooperare con i commissari liquidatori che si occupavano della Società Finanziaria Italiana (SFI). Creata per gli industriali del tessile tra Biella e Vercelli e poi divenuta azionista di maggioranza di società di altri settori, la SFI era andata in bancarotta alla fine del boom economico, a seguito di operazioni speculative, dissipando i risparmi di molti piccoli investitori: il più cospicuo fallimento del dopoguerra, fino a quel momento.
Nel corso dell’inchiesta, durata dieci anni (il pubblico ministero incaricato del caso è un giovanissimo Guido Galli, poi vittima del terrorismo rosso), spiccarono le abilità investigative di Ambrosoli, che contribuì a portare alla luce i meccanismi illeciti che avevano causato il fallimento della società.
Michele Sindona e Robert Venetucci alla sbarra durante il processo per l'omicidio Ambrosoli
Il successo che ebbe in quell’occasione portò, nel settembre 1974, il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli a nominarlo commissario liquidatore unico della Banca Privata Italiana (BPI), che il banchiere siciliano Michele Sindona portò alle soglie del crack finanziario con buchi da centinaia di miliardi cominciato negli Stati Uniti oltreoceano, col crollo azionario della Franklin National Bank, che provocò una scia di terremoti nel mondo finanziario sindoniano. Il sisma scosse anche la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria, dalla cui fusione, nell’agosto 1974, era nata appunto la BPI sindoniana (sebbene tra il 1971 e 1972 le ispezioni della Banca d’Italia avessero già rilevato gravissime irregolarità nella gestione dei due istituti di credito).
Il compito dell’avvocato Ambrosoli era di elevata difficoltà e si ritrovò ad analizzare una situazione economica derivante da fitti intrecci illegali tra finanza, politica, mafia e massoneria. Ibridi connubi dallo sfondo finanziario. Ambrosoli non era tipo da accondiscendenze e aveva un compito delicatissimo, oltre difficile: accertare lo stato d'insolvenza, lo stato passivo e il piano di riparto tra i creditori. Il processo fu invece affidato al giudice istruttore Ovilio Urbisci e al pubblico ministero Guido Viola.
Ad ottobre 1974 Ambrosoli accertò che le perdite erano di 207 miliardi, dichiarò lo stato d’insolvenza e l’avvio dell’azione penale. Cinque mesi dopo, il 25 febbraio del 1975 Ambrosoli era pronto per il deposito dello stato passivo della Bpi: 531 miliardi, di cui 417 al passivo e 281 all'attivo tra crediti, immobili, partecipazioni azionarie. Escluse dal rimborso lo Ior, la banca del Vaticano, e tutte le banche e società direttamente o indirettamente legate al gruppo Sindona.
In quel periodo si troverà davanti il muro di gomma di chi non voleva venisse fatta piena luce sul percorso che portò al tracollo della banca. Oltre alle resistenze di chi voleva tenere la polvere di Sindona sotto il tappeto, si trovò anche a dover cercare di patrocinare una soluzione in cui lo Stato si facesse carico dei debiti, facendo ricadere sui contribuenti il peso delle malversazioni del banchiere messinese. Per una soluzione politica si spese soprattutto Giulio Andreotti, beniamino di Sindona che lo definì addirittura “benefattore della lira”. Quello sforzo immane Ambrosoli dovette realizzarlo contando solo sulle sue forze e sul sostegno del Maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, l’unico, o uno dei pochi, tanto audace quanto Ambrosoli, che si immerse in quell’impresa. Novembre faceva parte del piccolo nucleo di Polizia giudiziaria costituito presso il Tribunale di Milano per indagare i profili penali del crack da 400 miliardi di Sindona. Ambrosoli era certo che presto qualcuno gliel’avrebbe fatta pagare, come scrisse in una lettera alla moglie nel 1975. . Così Novembre si spese facendo addirittura da scorta all’avvocato che non aveva ricevuto alcuna protezione sebbene le intimidazioni erano note alle forze dell’ordine da anni. La notte dell’11 luglio 1979, freddato da un killer davanti al portone di casa sua, a Milano. Il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti con inaudita impudenza, intervistato da Gianni Minoli per "La Storia siamo noi", disse: "Era uno che se l’andava a cercare”. E sempre rispondendo alle domande del giornalista non mancò di usare espressioni positive per Sindona ("Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, ma non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona. Il fatto che si occupasse di finanza sul piano internazionale dimostrava una competenza che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene").
Per il suo omicidio, sono condannati in via definitiva nel 1986 il mafioso William Aricò, esecutore materiale, arrivato appositamente dagli Stati Uniti, e Michele Sindona, come mandante. Dopo il verdetto, Sindona, che aveva inscenato un sequestro da parte di Cosa nostra per evitare l’arresto, verrà ucciso nel carcere di Voghera con una tazzina di caffè avvelenato al cianuro.
Fu indagando sull’omicidio Ambrosoli e sul finto rapimento inscenato da Sindona che i Giudici Istruttori di Milano Gherardo Colombo e Giuliano Turone, eseguendo alcune perquisizioni agli indirizzi facenti capo al gran maestro Licio Gelli, a cui Sindona risultava collegato da molteplici fili, entrarono in possesso dell’elenco degli affiliati alla loggia P2 a Castiglion Fibocchi. Un’altra pagina misteriosa della storia della Prima Repubblica.
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