L'intervento della scrittrice e biografa di Tina Anselmi all'Università degli Studi di Roma
La mafia 'dentro': la condizione in cui la cultura mafiosa entra nelle profondità dell'individuo fino a che non vi sono più differenze tra la sua soggettività e i valori dell'organizzazione. È un legame profondo, difficile da rompere. La "falla" è la collaborazione con la giustizia; l'altra via d'uscita è "con le gambe in avanti", dentro una bara.
A parlare è la scrittrice, nonché biografa e amica ufficiale di Tina Anselmi, Anna Vinci, durante il secondo incontro del ciclo di seminari 'La Notte della Repubblica' tenutosi lunedì 10 giugno presso la Sala Conferenze di UnitelmaSapienza (Università degli Studi di Roma). Con il Magnifico Rettore Bruno Botta, Michela Ponzani, storica e divulgatrice RAI, e il tecnico amministrativo Roberto Sciarrone, la scrittrice ha scandagliato le pieghe della vita interna di chi cresce e vive come 'uomo d'onore'.
"Rompere questo patto è una delle cose più difficili. Ci vuole una grande mente", ha detto Anna Vinci, ricordando l'operato del giudice Giovanni Falcone: "È lui che ha fatto rompere questa struttura 'segreta, simbolica, basata sul patto di sangue' con le sue indagini." Tutti particolari, ha detto Anna Vinci, contenuti nel suo libro 'La mafia non lascia tempo', scritto assieme al collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo: "Quando lui mi raccontava queste cose, mi ha fatto molta impressione perché, mentre le raccontava, si emozionava come se fosse lì ed era uno dei pochi momenti nei quali quasi aveva una specie di nostalgia".
Anna Vinci infatti affronta proprio questo nodo, che è un legame, un sigillo che impone al mafioso di strangolare il proprio figlio a mani nude se quest'ultimo infrange le regole di Cosa nostra. Questo sigillo, col tempo, si è rivelato però essere una chimera: tramite le indagini della magistratura e di una parte onesta della società civile (avvocati, giornalisti, membri delle forze dell'ordine, ecc.) sono emersi i 'soci' occulti dell'organizzazione, funzionari di Stato infedeli ed elementi legati ai servizi di sicurezza.
Una storia che racchiude tutti questi elementi è certamente quella dell'infiltrato Luigi Ilardo, vice capo provinciale di Caltanissetta legato alla potente famiglia mafiosa dei Madonia. La sua morte, avvenuta il 10 maggio 1996 a Catania, pochi giorni prima di entrare nel programma di protezione, è ancora orfana della verità. La vicenda, ricordiamo, è narrata nel libro 'Luigi Ilardo. Omicidio di Stato' scritto da Vinci assieme alla figlia dell'infiltrato, Luana Ilardo. "Io non volevo neanche scrivere questo libro", ha detto la scrittrice, "ma il direttore di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni, mi ha convinto". Anche in quest'opera ha impresso racconti da "pelle d'oca": in un capitolo Luana ha raccontato "la ferocia che per la prima volta vide nella vita di suo padre", cioè quando ignoti "avevano aperto la cassaforte che era regolarmente chiusa, trovandola vuota". Quel furto "era molto più di un attacco economico", era "la sfida lanciata da qualcuno che non aveva timore e che aveva osato sfidare Luigi Ilardo". Il boss di Cosa nostra esclamò: "Qualcuno si è permesso di entrare nella mia chiesa e rubare il mio oro". "Quelle semplici e poche parole, come sempre, avevano un mondo di significato celato dietro", ha spiegato la scrittrice. Un significato che solo alcuni possono comprendere nella loro interezza.
Alla fine Anna Vinci ha dichiarato che ci sarà anche un prossimo libro, che uscirà a settembre, scritto con il generale dei Carabinieri Michele Riccio: "Lui è una persona commovente, commovente per la sua onestà, per quanto ha sopportato e per quanto è rimasto dritto nel suo essere un servitore dello Stato, tradito da una parte dello Stato".
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