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via damelio sentenzadi Aaron Pettinari
Le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, il pieno coinvolgimento della famiglia mafiosa di Brancaccio nell’organizzazione dell’attentato in via d’Amelio, il depistaggio, i silenzi istituzionali, la sparizione dell’agenda rossa e l’ombra dei mandanti esterni. Sono solo alcuni degli aspetti emersi in questi tre anni durante il dibattimento sull’omicidio di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta (Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Emanuela Loi, Agostino Catalano). Sarà grande l’impegno per la Corte d’assise di Caltanissetta che si trova ad affrontare anche clamorosi colpi di scena. Nuove prove che posticipano la requisitoria dei pm. Comunque andrà a finire una cosa è certa: si riscriverà un pezzo di storia sulla strage.

Giugno 2008. E’ in quella data che Gaspare Spatuzza ha iniziato ufficialmente a collaborare con la giustizia autoaccusandosi del furto della Fiat 126 utilizzata nella strage di via d’Amelio, smentendo così la versione, fino a quel momento ritenuta reale, di Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. In particolare Spatuzza ha dichiarato di aver compiuto il furto dell’auto la notte dell’8 luglio 1992 (ovvero dieci giorni prima dell’attentato) insieme a Vittorio Tutino, su incarico di Cristoforo Cannella (detto ‘’Fifetto’’) e Giuseppe Graviano (capo della famiglia mafiosa di Brancaccio). Con precisione Spatuzza ha ripercorso tutte le fasi dell’operazione. Dal momento in cui venne rubata la macchina della signora Pietrina Valenti, al trasporto “a spinta” fino ad un capannone nei pressi di Fondo Schifano (dove già era stato avviato il lavoro di macinatura dell’esplosivo, nascosto in alcuni fusti di metallo). La macchina venne spostata l’11 luglio in un altro garage, in via Corso dei mille, dove furono riparati i freni e la frizione mentre il 18 luglio l’auto venne nuovamente trasferita in un altro locale in via Pietro Villasevaglios. Ed è proprio qui che, secondo quanto raccontato da Spatuzza, l’auto fu imbottita di esplosivo. Il 19 luglio, alle ore 16.58 in via Mariano d’Amelio, quella Fiat 126 esplose uccidendo, 57 giorni dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Emanuela Loi, Agostino Catalano.

Nuove indagini
Le dichiarazioni di Spatuzza sono dirompenti. Ha raccontato nei particolari il recupero dell’esplosivo utilizzato per le stragi del 1992 e del 1993, ha fornito nuovi dettagli sulla preparazione, ha parlato del fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, “l’ultimo colpetto” che i Graviano ordinarono prima di porre fine alla campagna stragista. In quello stesso incontro il capomafia di Brancaccio, particolarmente euforico, gli disse che avevano “il Paese nelle mani grazie ad alcune persone serie che non erano come i ‘quattro crasti’ dei socialisti che prima avevano preso i voti poi ci avevano fatto la guerra”. “Poi - ha raccontato Spatuzza - mi fece il nome di Berlusconi e del nostro compaesano Dell’Utri”. Partendo da questi nuovi elementi la procura di Caltanissetta ha quindi riaperto nuove indagini sulla strage. Non solo. Nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta hanno riferito ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dall’allora capo della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, e dal suo gruppo investigativo, che li avrebbero sottoposti a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso, mentre l’ex collaboratore Calogero Pulci ha sostenuto di avere agito di sua iniziativa perché, a suo dire, voleva aiutare gli inquirenti. Nell’aprile 2011 anche Fabio Tranchina (altro membro della famiglia di Brancaccio ed ex autista di Giuseppe Graviano) ha dato inizio alla propria collaborazione con la giustizia confermando, di fatto, le dichiarazioni di Spatuzza. E’ proprio Tranchina a fornire un fatto rilevante dicendo di aver compiuto due appostamenti in via d’Amelio insieme a Graviano. In un primo momento quest’ultimo gli chiese anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze per poi dirgli di aver cambiato idea in quanto aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d’Amelio per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.

Azione tardiva?
E’ da tutti questi dati che è arrivato il nuovo impulso per fare chiarezza e riscrivere parte della storia. Non si può non constatare come, ancora una volta, la svolta non sia giunta dagli uomini delle istituzioni, ma da un ex mafioso. Un po’ come è accaduto a Palermo, dove il nuovo input per le indagini sulla trattativa Stato-mafia è arrivato con le dichiarazioni di un figlio di un mafioso (Massimo Ciancimino) capace di far tornare la memoria a tanti “smemorati di Stato”. La differenza, purtroppo, è che sul fronte nisseno il silenzio istituzionale ha contraddistinto una grossa fetta d’indagine.
E laddove non c’è stata consapevolezza, forse, c’è stata sottovalutazione... (continua)

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