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mannino calogero c tm new infophotodi Aaron Pettinari
Secondo l’accusa, che ha chiesto la condanna a nove anni di carcere, l’ex ministro democristiano, consapevole di essere finito nella black list di politici e magistrati condannati a morte da Riina, si sarebbe attivato per aver salva la vita dando il via al dialogo dello Stato con Cosa nostra. La difesa, l’unica ad aver scelto il rito abbreviato, ha ovviamente chiesto l’assoluzione. Nei prossimi mesi il gup Marina Petruzzella dovrà valutare il ruolo dell’ex deputato Dc all’interno di quel patto scellerato tradotto nel reato “violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato” (art.338 e 339 del codice penale).

“La trattativa ha salvato la vita a molti ministri”. Con queste parole, nell’ottobre 2009, Piero Grasso, allora Procuratore nazionale antimafia ed oggi Presidente del Senato, intervistato da La Stampa, non lasciava spazio a dubbi di alcun tipo facendo intendere che la trattativa con la mafia nei primi anni ’90 c’è stata ed anzi Cosa Nostra aveva capito di poter ricattare lo Stato. Il processo trattativa Stato-mafia non era ancora iniziato e le indagini si stavano sviluppando grazie all’impulso dato da un ex mafioso, Gaspare Spatuzza, e da un figlio di un mafioso, Massimo Ciancimino. In seguito alle rivelazioni di questi ultimi fior fior di politici smemorati, da Claudio Martelli a Luciano Violante, hanno fatto la fila in Procura permettendo a quei magistrati che stavano indagando, di ricomporre parte del “puzzle” su quegli anni tragici. Ma Grasso nell’intervista andò anche oltre spiegando che i mafiosi “in principio pensavano di attaccare il potere politico e avevano in cantiere gli assassinii di Calogero Mannino, Martelli, Andreotti, Vizzini e forse mi sfugge qualche altro nome. Cambiano obiettivo probabilmente perché capiscono che non possono colpire chi dovrebbe esaudire le loro richieste. In questo senso si può dire che la trattativa abbia salvato la vita a molti politici”. Ma come iniziò questo dialogo tra Stato e mafia?
Nella sua requisitoria il pm Roberto Tartaglia (che assieme a Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo e Francesco Del Bene fa parte del pool che indaga su questi fatti) sottolinea come “una parte importante delle istituzioni, non solo politiche, per esigenze egoistiche e individuali, contrabbandate da ‘ragioni di stato’” ha di fatto accettato “il dialogo e il compromesso con l’organizzazione mafiosa” realizzando così “i desiderata di Cosa Nostra”. Prima di addentrarsi nella materia però va sgomberato il campo da un equivoco ricorrente, commesso anche da giuristi ed esimi professori, riguardo la tipologia di reato contestato: “né Mannino né gli altri imputati sono imputati per avere trattato, ma gli sono contestate condotte nel corso della trattativa”.

Trattativa salva vita
Secondo l’impianto accusatorio Mannino sarebbe stato “motore di quelle iniziative”. All’ex politico della Dc viene contestato un vero e proprio “contributo morale”, una sorta di “istigazione” all’attività criminale. Secondo la tesi della Procura Mannino è un “garante di continuità dell’interlocuzione intrapresa”. Secondo il pubblico ministero le condotte di Mannino e degli altri uomini dello Stato coinvolti “hanno oggettivamente portato alla realizzazione degli obiettivi” della mafia, contribuendo così ad “orientare la strategia stragista di Cosa Nostra nel 1992 e nel 1993”.
Non solo. L’ex esponente Dc avrebbe esercitato vere e proprie “pressioni” politiche ai fini dell’alleggerimento del regime carcerario del 41 bis per numerosi mafiosi a fronte dei timori per la propria incolumità sorti prima e dopo l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima. Tutto ha inizio nel febbraio ’92 (dopo il verdetto della Cassazione sul maxi processo) quando l’ex ministro democristiano riceve a casa una corona di crisantemi. Pur avendo capito perfettamente quale messaggio di morte rappresentasse, si guarda bene dal denunciarlo. Qualche giorno dopo, però, confida al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli: “Ora uccidono me o Lima”. E così accade. Il 12 marzo Salvo Lima viene assassinato a Mondello. Tre settimane dopo, il 4 aprile, anche Guazzelli viene barbaramente ucciso in modalità mai del tutto chiarite. Secondo gli inquirenti quell’assassinio sarebbe stato deciso per lanciare un ulteriore messaggio di minaccia proprio a Mannino ma anche al Ros, con cui il politico Dc si era messo in contatto temendo per la propria vita. Leggendo la requisitoria Guazzelli viene descritto come “l’uomo di azione di Calogero Mannino, l’uomo-cerniera tra Mannino e Subranni”, quello stesso uomo che nelle settimane antecedenti al suo omicidio “era stato incaricato da Mannino e Subranni di occuparsi anche della mediazione tra i due per la soluzione del delicatissimo problema del pericolo di morte per Mannino”. Secondo i pm, quindi, si tratta di un segnale che “colpisce Guazzelli ed arriva diretto a Mannino e che rappresenta l’acme di quella escalation di intimidazioni e di pressione psicologica che Cosa Nostra sta portando avanti nei confronti di Mannino”. Un omicidio che dimostra al Ros e a Mannino che questa volta il problema “è serissimo” e quindi “comporta la necessità di quella interlocuzione piena ed occulta con i vertici di Cosa Nostra che infatti, di lì a pochissimo, gli uomini di Subranni, Mori e De Donno, avvieranno con Vito Ciancimino”.
Ad avallo della ricostruzione dell’accusa vi sono poi le dichiarazioni di Riccardo Guazzelli, figlio di Giuliano, il quale aveva rivelato di un incontro, avvenuto prima dell’omicidio Lima, nel quale Mannino aveva esternato al padre il terrore di essere ucciso, ma anche le annotazioni dell’ex colonnello del Ros, Michele Riccio. Quest’ultimo il 13 febbraio 1996 aveva scritto di suo pugno: “Sinico, confermato Subranni aveva paura della morte di Guazzelli (maresciallo) vicino a Mannino, De Donno fu fatto rientrare di corsa dalla Sicilia - Guazzelli fu avvertimento per Mannino e soci?”. A questi si aggiungono i diversi incontri, successivi alla morte di Guazzelli, che sempre l’ex ministro avrebbe avuto più volte a Roma con il generale Subranni, alla presenza anche dell’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada.
Della paura di Mannino ci sono poi elementi negli appunti scritti a mano dal giornalista Antonio Padellaro, che si incontrò con il politico Dc quando ancora lavorava all’Espresso per un’intervista che poi non fu mai pubblicata. Scrive Padellaro sul suo taccuino: “Colloquio con Calogero Mannino avvenuto nel suo ufficio di via Borgognona 48 alle 17,00 di mercoledì 8 luglio (1992, ndr). Rapporto dell’Arma dei carabinieri che indica Mannino, Andò, Borsellino e due ufficiali dei CC siciliani bersagli della mafia. Si dice anche che la mafia sta preparando nuovi clamorosi colpi per disarticolare lo Stato. Non vado da un mese in Sicilia perché secondo i CC c’è un commando pronto ad accopparmi. Ma io questa settimana andrò lo stesso. Forse i CC possono individuare uno degli attentatori”. Poi ancora: “Per il maxiprocesso fu raggiunta una specie di accordo con il potere politico. Voi - disse Cosa Nostra - ingabbiate la mafia perdente e alcuni marginali della mafia vincente. Ma l’accordo è che alla fine di questo iter c’è la Cassazione, che ci rimetterà in libertà. Noi nel frattempo ce ne restiamo buoni e calmi continuando a fare i nostri affari. Ma il Governo non ha rispettato i patti e Andreotti ha fatto approvare una serie di leggi repressive”. Interrogato sul punto Padellaro aveva raccontato agli inquirenti di essersi trovato di fronte ad un uomo terrorizzato che si era anche lasciato andare ad esternazioni particolarmente forti: “Ho orrore di restare in questa condizione di condannato a morte. Sento che sto per perdere la ragione. Maledico il giorno in cui ho iniziato a fare politica”. Verso la fine di quegli appunti l’ex esponente Dc si era lasciato andare ad una considerazione del tutto ambigua. “I carabinieri vogliono che non mi espongo. Sono troppo nel mirino. Ma io ho una gran voglia di raccontare molte cose. E penso che lo farò”. Peccato che di quelle “molte cose” a cui faceva riferimento Mannino mai nulla è stato riferito all’autorità giudiziaria.

Ros-Ciancimino, punto di contatto
Nella requisitoria del pm Tartaglia vengono quindi ricostruite tutte le fasi della trattativa, maturate in quel biennio di stragi, partendo proprio dai contatti tra Mannino ed il Ros. Viene messo in evidenza come quell’iniziativa degli ufficiali dell’arma sia tutt’altro che una “raffinata operazione di polizia giudiziaria” (come invece sostengono, anche di recente, gli stessi Mori e De Donno ed il capitano Ultimo, Sergio De Caprio).
Sono gli stessi ufficiali dell’arma a parlare esplicitamente di trattativa, già nel 1998, davanti ai giudici di Firenze che si occupavano delle stragi del 1993, e a definire i primi contorni di quel dialogo. Diceva allora Mori: “Andammo da Ciancimino, ma insomma signor Ciancimino... ormai c’è muro contro muro… ma non si può parlare con questa gente? Lui dice sì si potrebbe io sono in condizioni di poterlo fare. Certo io non potevo dire sig. Ciancimino mi faccia arrestare Riina e Provenzano. Gli dissi lei non si preoccupi, lui capì volevamo sviluppare questa trattativa”.
Ancora più chiare sono le parole che l’allora capitano Giuseppe De Donno riferì nel corso dello stesso processo: “Proponemmo a Ciancimino di farsi tramite per nostro conto al fine di trovare un punto di incontro. Ciancimino accettò con delle condizioni a patto di rivelare i nostri nomi. Facemmo capire che questa non era una nostra iniziativa personale. Ci siamo incontrati e ci disse che l’interlocutore tra lui e Riina voleva una dimostrazione… concessione del passaporto per ulteriori trattative fuori dal territorio dello Stato. Al quarto incontro Ciancimino accettò la nostra richiesta di trattativa. Va bene accettano, vogliono sapere cosa volete. Mori ne aveva parlato solo con Subranni”. Quella era la prima occasione in cui carabinieri ne parlavano, dopo che l’allora neopentito Giovanni Brusca aveva riferito per la prima volta dell’esistenza di una trattativa.
Tartaglia cita anche la sentenza definitiva della corte di Firenze in cui vengono messi nero su bianco pesanti giudizi sull’iniziativa del Ros. “Non si comprende assolutamente - scrivevano i giudici fiorentini il 6 giugno 1998 - come sia potuto accadere che lo Stato, in ginocchio nel ’92 secondo le parole dello stesso Generale Mori, si sia potuto presentare a Cosa Nostra per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa almeno fino al 18 ottobre ’92, si sia trasformato dopo pochi giorni in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il Generale Mori e il Capitano De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di showdown, giunta, a quanto logico ritenere, addirittura in ritardo”. “Quello che conta - sottolineavano ancora i giudici della Corte di Assise - è come apparve all’esterno, e oggettivamente, l’iniziativa del ROS e come la intesero gli uomini di Cosa Nostra; conseguentemente importa quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro; sotto questo aspetto, vanno dette alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS, perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano (De Donno), il vice-comandante Mori, e lo stesso comandante del reparto Subranni, aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa”.
Secondo l’accusa “l’iniziativa del Ros non fermò le stragi, ma la deviò dai suoi obiettivi. Non più i politici, ma i magistrati. L’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili, non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di trattativa, di dialogo ha espressamente parlato il Capitano De Donno, ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata, di contattare i vertici di Cosa Nostra per capire cosa volessero in cambio”.
Non è poi da sottovalutare l’assenza, nel fascicolo relativo a Vito Ciancimino, di atti ufficiali che attestano quegli incontri con il sindaco mafioso di Palermo (salvo una tardiva relazione nel 1997). Un elemento che si aggiunge alle dichiarazioni dell’allora Comandante generale dell’Arma dei carabinieri Viersi, e dell’allora direttore della Dia, il generale dei carabinieri Tavormina, i quali hanno confermato come fossero stati tenuti totalmente all’oscuro dell’iniziativa di Mori. E se da una parte vi era il silenzio con l’autorità giudiziaria e con gli altri organi competenti, dall’altra Mori continuava a cercare sponde politiche contattando l’allora ministro della Giustizia Martelli e l’allora presidente della commissione antimafia Luciano Violante. Non solo. Secondo la tesi dell’accusa il dialogo con Mannino proseguiva parlando dell’anonimo noto come “Corvo 2” e dell’informativa “Mafia appalti”.

Il mistero del “Corvo 2”
Parlando delle otto pagine anonime, ribattezzate “Corvo 2”, il pm Tartaglia nella requisitoria ricorda come queste “descrivevano complessivamente l’instaurazione di un canale di comunicazione, in seguito ed a causa dell’omicidio di Salvo Lima, tra esponenti politici, tra cui Mannino, e i vertici di Cosa Nostra”. Quei fogli erano stati inoltrati a 39 destinatari (tra cui giornalisti, magistrati e altre figure istituzionali), di fatto l’anonimo era stato scritto a cavallo tra il 23 maggio ‘92 e il 19 luglio ‘92 ed era stato indirizzato, tra gli altri, anche a Paolo Borsellino. Lo stesso Borsellino si sarebbe successivamente occupato di quell’anonimo. “In tanti hanno temuto che attraverso le indagini sul Corvo 2 Borsellino potesse arrivare concretamente ad indagare su quella interlocuzione (tra Stato e mafia, ndr) appena iniziata”, sottolinea Tartaglia. Il pm unisce fatti e circostanze collegandoli a persone specifiche. Il quadro che emerge è del tutto coerente. Così come riportato dall’ex tenente dei carabinieri che aveva collaborato con Paolo Borsellino, Carmelo Canale, l’incontro del 25 giugno 1992 tra Mori, De Donno e Borsellino non era finalizzato alla discussione del rapporto Mafia e Appalti, ma bensì alla trattazione del “Corvo 2”. Il magistrato evidenzia le forti preoccupazioni di Subranni: “Prima, i carabinieri fecero filtrare una notizia all’Ansa, secondo cui quell’anonimo era carta straccia. Poi, dopo la morte di Borsellino, Subranni chiese addirittura alla procura di archiviare l’inchiesta sull’anonimo”. Tra coloro che si preoccupano di quell’esposto anonimo ci sono anche l’agente dei Servizi segreti Angelo Sinesio che chiede ossessivamente al pm Alessandra Camassa quali fossero le ultime indagini di Borsellino e l’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada che più volte si incontra al Ministero con Subranni e Mannino. “Non può davvero sfuggire il motivo per cui Contrada, indicato nelle agende come presente ai primi incontri Mannino-Subranni, fosse fino a tal punto interessato a sapere a quali risultati su Mannino e sul Corvo 2 fosse arrivato con la sua indagine Paolo Borsellino prima di morire”, sottolinea Tartaglia. Per poi aggiungere amaramente “Sinesio non fu l’unico in quel momento storico a fare il ‘cane da guardia’ di Mannino per conto di Contrada, e cioè ad informarsi con tanta insistenza di eventuali indagini dell’autorità giudiziaria nei confronti di Mannino”.

Rapporto Mafia Appalti e la doppia funzione del Ros
Secondo l’accusa il Ros svolse una doppia funzione nel rapporto con Mannino. Da una parte intervenne salvandogli la vita da quella condanna a morte emessa da Riina, dall’altra lo salvò dal rapporto Mafia e Appalti, sul sistema d’infiltrazione di Cosa Nostra nelle commesse pubbliche in Sicilia, depositata al giudice Giovanni Falcone il 20 febbraio del 1991, “depurandolo” dai riferimenti politici.
“Di Mafia e Appalti - scrive il pm Tartaglia nella requisitoria - ne esistono due refertazioni: una data a Falcone e depurata dai riferimenti politici (da Salvo Lima a Rino Nicolosi, passando dallo stesso Mannino, ndr), l’altra già pronta e completa nel 1991, che però aveva seguito chissà quali canali occulti fino alle fughe di notizie trapelate sui giornali: solo che di quelle notizie non pubblicate sui quotidiani, la procura non ne era a conoscenza”.
E’ dopo la strage di via d’Amelio che soffiate dell’informativa su Mafia e Appalti originale finiscono sui giornali e a quel punto partono nuove inchieste. “Le indagini condotte dalla procura di Palermo furono condizionate da alcune anomalie, vennero disposte senza quello che il Ros aveva acquisito ben un anno prima - ha continuato Tartaglia - Il tema Mafia e Appalti diventa l’ennesimo elemento sul rapporto illecito tra Subranni e Mannino: d’altra parte anche Angelo Siino ci dice che dietro il Ros c’è l’ex ministro”. “Oggi - sottolinea Tartaglia - sappiamo che Subranni e il Ros non hanno denunciato Mannino all’Autorità giudiziaria, ma che anzi, imbattutisi nella posizione di Mannino nel corso della loro indagine, con delle intercettazioni telefoniche, hanno commesso gravissimi reati di falso e favoreggiamento e lo hanno coperto dalle indagini della Procura di Palermo per 19 mesi e cioè fino a quando, dopo le fughe di notizie sull’informativa autentica finita sui giornali, non ne hanno potuto fare a meno e l’hanno depositata in versione ‘piena’ per evitare di essere arrestati!”.

Prima versione
Per ricostruire una tra le vicende più spinose della Procura di Palermo è necessario fare un passo indietro. E’ in una relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Giancarlo Caselli datata 5 giugno ’98, titolata “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”, che si evidenziano “clamorose ed agghiaccianti anomalie”. Il primo punto affrontato riguarda la prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di Mannino o di altri politici. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione. Non ci sono politici tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione. Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo, “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una fuga di notizie, quindi, si verifica realmente, ma del tutto misteriosa, in quanto riguardava atti investigativi che in quel momento la Procura di Palermo non aveva. E la domanda che sorge spontanea è immediata: chi aveva fatto uscire quei brogliacci?

Seconda versione
Il 5 settembre del ‘92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni “costretto da una non prevista campagna di stampa che rischiava di far scoppiare lo scandalo” si decide a depositare una seconda informativa mafia-appalti che contiene espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi. “Ma questa seconda informativa, finalmente completa - sottolinea Tartaglia nella requisitoria -, contiene acquisizioni investigative su Mannino e sui politici che sono acquisizioni addirittura di un anno antecedenti alla data della prima informativa”. Questa seconda relazione, presentata 19 mesi dopo la prima, riporta incredibilmente acquisizioni investigative su Mannino che già c’erano ed erano state elaborate molto prima della informativa di febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti. “Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Palermo negli anni 1991-1992 - scriveva Caselli nella sua relazione consegnata persino alla Commissione antimafia - furono condizionate da talune anomalie, ed in particolare si svolsero senza disporre delle integrali ed effettive risultanze investigative che pure il Ros aveva già acquisito fin dalla prima metà dell’anno 1990”. E’ così che il 5 settembre del ‘92 la Procura di Palermo viene a conoscenza per la prima volta dei nomi dei politici implicati; grazie ad un’informativa a firma del capitano del Ros Giuseppe De Donno “venivano per la prima volta riferiti l’esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991, recanti la citazione di personalità politiche nazionali”.
Anche in questo caso porsi degli interrogativi è più che legittimo. Chi poteva avere la possibilità e l’autorità di eliminare dall’informativa le fonti di prova su politici di primo piano, prima che la stessa fosse consegnata alla Procura di Palermo? Le omissioni effettuate sono frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino, che avevano contattato i Carabinieri? Vi era anche questo tema all’oggetto di quegli incontri tra Mannino e Subranni? Un quadro quantomeno plausibile.

Il nodo del 41 bis e l’interlocuzione a colpi di bombe
Tra le richieste di Riina allo Stato contenute nel famigerato “papello” il pm sottolinea l’importanza di quella relativa alla revoca del 41-bis, così come quella inerente alla “dissociazione”. Si trattava dell’estensione per legge, anche ai detenuti mafiosi, dei benefici processuali e penitenziari previsti per i terroristi politici in caso di dissociazione (in caso di semplice presa di distanze dall’organizzazione, pur senza alcun contributo collaborativo). Secondo i pm nel corso del ‘93 era stato proprio Mannino, nella veste di “motore ed input della trattativa del Ros”, ad intervenire ancora per “sollecitare e garantire l’adempimento degli impegni assunti con Cosa Nostra nel corso della prima fase della trattativa, con particolare riferimento proprio al discorso della revoca e dell’alleggerimento del regime penitenziario previsto dal 41-bis” assumendo quindi la veste di “garante di continuità e di osservanza”.
E’ nella requisitoria conclusiva del procuratore aggiunto Vittorio Teresi che si analizza quanto avvenuto nel corso del 1993 non solo all’esterno, con le bombe di via Fauro, via dei Georgofili, via Palestro, San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, ma anche all’interno delle istituzioni. E’ quello infatti l’anno degli scossoni sia all’interno dell’universo politico (come la sostituzione del ministro della Giustizia Martelli con Conso), che in quello carcerario (la sostituzione di Nicolò Amato con Adalberto Capriotti alla direzione del Dap e la nomina di Francesco Di Maggio come vice).
Secondo l’accusa non è un caso che all’indomani della strage di via dei Georgofili Mannino rilasciò un’intervista in cui, contrariamente a quanto detto dai principali investigatori dell’epoca, diceva che a compiere la strage non erano i boss. Per Teresi l’ex ministro democristiano è “perfettamente consapevole che, dopo la strage di Capaci, ha bisogno dell’interlocuzione con la mafia perché sa che è nel mirino dei boss. In questo momento iniziano i suoi incontri con Mori e Contrada come testimoniano le agende dell’uno e dell’altro. Lui (Mannino, ndr) conosce ed interferisce con il Dap per realizzare cosa è possibile dare ai mafiosi, per convincere alcuni settori istituzionali, per acconsentire alle richieste, le uniche che gli possono oggettivamente salvare la vita”. Ecco quindi che si arriva alle mancate proroghe di centinaia di 41bis così da dare “un segnale di distensione”.

Interferenze con il Dap
Nella documentazione citata dal pm si fa riferimento ad una prima riduzione del 10% dei decreti firmati da Martelli. Il tutto avviene meno di un mese dopo la strage di Firenze. Per Teresi si tratta di “un segnale di distensione immotivato, ma fortemente voluto dal Dap e da chi, fuori dal Dap, aveva assoluta necessità di far vedere a Cosa Nostra che stava adempiendo alle obbligazioni assunte”. Ma chi c’era fuori? “Mannino che telefona a Di Maggio” per chiedere di “non far applicare” e di “ritardare” alcuni 41 bis.
Un’interlocuzione riferita ai pm dall’ispettore di polizia penitenziaria, Nicola Cristella: “Eravamo in macchina, il dottore Di Maggio ricevette la telefonata di un politico siciliano (Mannino, ndr) che gli chiese esplicito se poteva attendere prima dell’applicazione del 41 bis. E Di Maggio chiuse la conversazione e si arrabbiò”. Secondo l’ispettore quella telefonata sarebbe avvenuta tra l’estate e il settembre 1993, alla vigilia della mancata proroga di oltre trecento 41 bis disposta dal ministro della Giustizia, Giovanni Conso. L’ex Guardasigilli, ad oltre vent’anni di distanza, ha dichiarato di aver agito “in solitudine, senza informare nessuno”. Le testimonianze e la documentazione del biennio stragista lo smentiscono decisamente. Tra queste carte basta riprendere la nota del Dap del 26 giugno 1993 con la quale viene prevista una riduzione dei provvedimenti applicativi del 41bis in relazione proprio a quegli oltre trecento decreti emessi nel novembre del ‘92. Un documento, così come scritto, mirato a rappresentare un vero e proprio “segnale di distensione” a Cosa Nostra. Ma gli scambi epistolari tra amministrazione penitenziaria ed il Ministero sono numerosi e la discussione si protrae nonostante le bombe di Roma, Firenze e Milano.
Il pm Teresi ricorda che in quel momento ai vertici del Dap si parlava anche, in maniera riservata, di creare all’interno delle carceri delle “aree omogenee” da “destinare ai dissociati di mafia” e che la mancata proroga del 41 bis “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. “Per capire cosa accade nel 1993 - aggiunge il coordinatore del pool sulla trattativa Stato-mafia - bisogna capire la rivoluzione copernicana al ministero della giustizia accompagnata dalla sostituzione al Dap dove il problema carcerario era una risposta”. Il Dap “doveva essere controllato da personaggi che fossero disposti a consentire la realizzazione di talune richieste di Cosa Nostra”, soprattutto in merito all’“attenuazione del 41 bis”. Teresi ricorda che l’allora capo del Dap Nicolò Amato è “meno in sintonia” con il neo Guardasigilli Conso precisamente in tema di carcere duro. “Conso non tiene in nessun conto” le indicazioni di Amato sull’effettivo potenziamento del regime del 41bis. Non solo. Tra i primi atti compiuti vi è un annullamento di un decreto firmato da Martelli con cui venivano potenziati i regimi carcerari a Secondigliano e a Poggio Reale dopo gli omicidi “simbolici” del sovraintendente Pasquale Campanello e dell’agente penitenziario Michele Gaglione. Non mancano poi le “anomalie procedurali” come “l’intervento di figure ecclesiastiche come l’ex ispettore generale dei cappellani delle carceri, Cesare Curioni, e del suo fedele vice, Fabio Fabbri, chiamati appositamente da Scalfaro per farsi consigliare sul sostituto di Amato al Dap. Oppure come l’azione mirata a conferire l’incarico di vice direttore al Dap a Francesco Di Maggio, semplice magistrato di tribunale, privo di quel livello di professionalità per potersi occupare delle carceri”.

Il parere di D’Ambrosio
Per unire i vari tasselli che ruotano attorno alla nomina di Di Maggio al Dap Teresi riprende anche la conversazione telefonica tra l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino e l’ex consulente giuridico del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Loris D’Ambrosio. L’intercettazione è quella del 25 novembre 2011 quando a Mancino il dott. D’Ambrosio dichiara: “Uno dei punti centrali di questa vicenda comincia a diventare la nomina di Di Maggio”, per sentirsi rispondere: “E certo, non aveva i titoli”, prima di replicare: “Ecco, e diventa dirigente generale attraverso un decreto del presidente della Repubblica no? Ora io ho assistito personalmente a questa vicenda (…) Io ricordo chiaramente il decreto scritto, il Dpr scritto nella stanza della Ferraro (Liliana Ferraro, all’epoca direttore degli affari penali del Ministero, ndr), il Dpr che lo faceva vice capo del Dap”. Di fatto si tratta della dimostrazione plastica della piena conoscenza di D’Ambrosio dell’irritualità della nomina di Di Maggio al Dap, una notizia inizialmente taciuta ai magistrati che lo avevano interrogato.

Quelle carte che profetizzavano la trattativa
Vi sono anche altri documenti che dimostrano come già nel 1993 vi fosse la consapevolezza istituzionale del patto che si stava consumando tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato. Esempi lampanti sono la nota della Dia del 10 agosto ’93 e il rapporto dello Sco dell’11 settembre di quello stesso anno. In quelle carte, inviate ai gangli vitali degli apparati statali, per la prima volta compariva il termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - avevano scritto gli analisti della Dia -. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”. Nel documento veniva specificato che “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Per gli uomini dello Sco Cosa Nostra stava seminando il terrore in tutta Italia per “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo”. Le bombe di Firenze, Milano e Roma “non avrebbero dovuto realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Parole pesantissime, e soprattutto profetiche. Si arriva così alle mancate proroghe di novembre anticipate da un fax, mandato il 29 ottobre del ’93 dal Dap alla Procura di Palermo in cui si chiedeva un parere sulla possibile revoca del 41 bis a diversi detenuti di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita. La Procura di Palermo rispose in tutta fretta, dando parere negativo, ma ciò non bastò per evitare il disastro e a godere della mancata proroga furono “uomini d’onore, ma anche di capi mandamento che nella loro storia hanno abbracciato la causa corleonese stragista: Francesco Spadaro, Diego Di Trapani, Giuseppe Giuliano, Vito Vitale, Giuseppe Farinella, Antonio Geraci, Raffaele Spina, Giacomo Giuseppe Gambino, Giuseppe Fidanzati, Andrea Di Carlo, Giovanni Prestifilippo, Giuseppe Gaeta, Giovanni Adelfio ed altri”.

Bellini, la “Falange Armata” e la “preoccupazione” De Mita
Tra i temi affrontati nella requisitoria dei pm vi sono anche elementi ulteriori come il contatto tra il luogotenente dei carabinieri Roberto Tempesta e la “primula nera” Paolo Bellini, figura misteriosa degli anni ‘80-‘90. Un contatto che rappresenta “il secondo piano di trattativa” per cui quest’ultimo si sarebbe potuto infiltrare in Cosa Nostra per evitare le stragi. Un tentativo che, secondo la ricostruzione della Procura “era visto come pericoloso perché faceva saltare il tavolo di quella negoziazione con Vito Ciancimino che seguiva binari ben più articolati e politici di quelli della polizia giudiziaria di cui parlano Mori e De Donno, quindi la trattativa di Vito Ciancimino aveva mandanti politici”.
Accenno è anche stato fatto al singolare utilizzo della sigla “Falange Armata” nella rivendicazione delle stragi ma anche per gli omicidi Lima e Guazzelli con la finalità che “non era quella di depistare ma quella di destabilizzare”. Un’indicazione che viene raccontata da collaboratori di giustizia come Filippo Malvagna e che è inserita anche nel decreto di rinvio a giudizio del processo madre sulla trattativa Stato-mafia, scritto dal gip Piergiorgio Morosini.
“Dall’esame delle fonti indicate - aveva evidenziato Morosini - si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Armata e compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa”. Quindi aggiungeva che “nel perseguimento di questo progetto Cosa Nostra sarebbe alleata con consorterie di ‘diversa estrazione’, non solo di matrice mafiosa (in particolare sul versante catanese, calabrese e messinese). E nelle intese per dare forma a tale progetto sarebbero coinvolti ‘uomini cerniera’ tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria”.
Non è poi passata in secondo piano, nella ricostruzione dei pm, l’intercettazione “casuale” dello stesso Mannino da parte della giornalista del Fatto Quotidiano Sandra Amurri (21 dicembre 2011). Al processo per la mancata cattura di Provenzano, così come dinnanzi alla Corte di Assise di Palermo presso la quale si celebra il processo sulla Trattativa, la giornalista aveva ricostruito in aula gli istanti nei quali casualmente aveva captato la conversazione tra l’ex ministro democristiano e l’on. Giuseppe Gargani (Fi). “Hai capito, questa volta ci fottono - aveva detto Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri -, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.
Parole che il pm Teresi, prima di chiedere la condanna per Mannino a nove anni di reclusione più le pene accessorie previste dalla legge, rimarca con forza: “Quando Mannino disse a Gargani ‘la Procura di Palermo ha capito tutto’ diceva il vero. Si è riusciti a trasformare quel che si era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, ‘ora ci fottono’, ‘Ciancimino ha detto la verità su di noi’ vanno direttamente collegate al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima, dopo le stragi, il suo rapporto con Mori, il suo sollecitare la non applicazione del 41 bis allo stesso Di Maggio. E’ lui l’istigatore principale di quel contatto tra Mori e De Donno e Cosa Nostra, ma anche con altri esponenti istituzionali, perché bisogna scegliere la via dell’accordo mentre gli uomini dello Stato avrebbero dovuto cercare la strada per distruggere Cosa Nostra, non quella di conviverci e coesisterci”. Secondo il procuratore aggiunto con il suo agire l’ex ministro “rafforza con questo la determinazione di Mori, De Donno e Subranni a parlare con Riina in quanto vuole che Cosa Nostra pensi ad altro, cinicamente pensi ad altri. Altre vittime, altre stragi, non lui. E anche se questo non è l’unico fine della trattativa, il che sarebbe riduttivo, ma è certamente l’unico fine di Mannino”. Basteranno gli elementi raccolti per arrivare ad una sentenza di condanna? A prescindere dall’esito giuridico (con la difesa che ha ovviamente chiesto l’assoluzione preannunciando anche ricorsi alla Corte costituzionale) i fatti restano indelebili ed impressi nella Storia.

ANTIMAFIADuemila n° 72 - 2015

In foto: Calogero Mannino @TMnew infophoto

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