All’Ordine dei giornalisti una conferenza stampa sulla vicenda giudiziaria del fondatore di Wikileaks
Tra il 20 ed il 21 febbraio l’Alta Corte di Giustizia Britannica si riunirà per decidere in merito all’istanza d’appello presentata dai legali di Julian Assange per scongiurare la sua estradizione negli Stati Uniti in cui lo attendono 175 anni di carcere, solo per aver fatto il suo lavoro di giornalista. È stato questo il focus della conferenza stampa che si è tenuta ieri presso il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti a Roma. L’appuntamento, organizzato da Articolo 21, “Free Assange Italia” e “La mia voce per Assange”, ha visto la partecipazione di Fnsi, Usigrai, l’Ordine del Lazio, Amnesty International Italia, ma anche giornalisti come Riccardo Iacona, Stefania Maurizi, Alberto Negri e altri. Julian Assange, editore australiano nonché fondatore di Wikileaks, dal 2019 si trova rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. Da anni gli Stati Uniti vogliono mettere le mani su di lui per aver svelato al mondo crimini di guerra, torture, corruzioni e migliaia di documenti riservati in cui erano documentate le trame oscure sia delle democrazie, sia delle democrature.
“Anche se ne uscirà vivo nessuno gli restituirà questi anni in cui ha vissuto privato della sua libertà”, ha detto la Maurizi che per oltre un decennio ha lavorato a stretto contatto con Assange e Wikileaks. Se estradato negli Stati Uniti “rischia di finire nella peggiore prigione degli Stati Uniti, l’ADX Florence”, ha aggiunto. Si tratta di un carcere maschile di massima sicurezza. Costruito a Florence, appunto, nelle montagne rocciose del Colorado, l’Administrative Maximum Facility è stato definito come Supermax o l'Alcatraz delle Montagne Rocciose. Considerato il più sicuro del Paese, al suo interno sono più di 400 detenuti di primo livello, tra cui alcuni membri della famiglia mafiosa Gambino, terroristi internazionali, molti dei quali sono membri di al Qaida, come Zakariya Musawi, che ebbe un’importante parte negli attentati dell’11 settembre 2001.
Riccardo Iacona
C’è poi Theodore Kaczynski, conosciuto anche come Unabomber, condannato a otto ergastoli; Eric Rudolph, membro di un gruppo estremista cristiano che nel 1996 fece un attentato alle Olimpiadi di Atlanta; Terry Nichols, uno dei responsabili dell’attentato di Oklahoma City in cui nel 1995 morirono 168 persone. Nel 2009 in uno dei più famosi programmi televisivi degli Stati Uniti (60 Minutes) l’ex direttore della prigione Robert Hood definì l’ADX come un luogo “non fatto per l’umanità”, descrivendolo “come l’inferno, solamente più pulito
“I prigionieri sono in completo isolamento. Non riescono a comunicare fra loro neanche attraverso i muri – ha aggiunto Stefania Maurizi -. Stanno 23 ore in isolamento. L’ora ricreativa la passano in un’altra stanza a cielo aperto priva di contatti. L’accesso alle cure è limitato e Assange ci passerà tutta la vita”. Gli Stati Uniti hanno detto che non riserveranno questo trattamento ad Assange in caso di estradizione e che non sarà messo sotto il regime delle Special Administrative Measures (SEM), “più restrittivo del 41bis italiano”, ha aggiunto la giornalista al convegno. “Eppure – ha continuato Stefania Maurizi - queste grazie statunitensi non hanno valenza legale. Sono scritte nell’acqua. Il pericolo che finisca in questa prigione è più che reale”.
Stefania Maurizi
Quella di Assange è una vicenda che “riguarda tutti noi, perché ha a che fare con l’esito delle nostre povere democrazie”, ha detto il giornalista Riccardo Iacona, che tornerà sulla vicenda con un nuovo speciale di PresaDiretta il prossimo 19 febbraio intitolato “Assange ultimo appello”. Il trattamento riservato ad Assange non ha eguali nella storia. “Pinochet era stato mandato ai domiciliari quando venne fermato su mandato del giudice spagnolo Baltasar Garzón che voleva processarlo per crimini di guerra – ha continuato Iacona -. Assange si trova in carcere solo per aver fatto il suo mestiere da giornalista. Questo processo è un’assurdità”.
Per Tina Marinari, coordinatrice di Amnesty International Italia, è evidente che “in Europa e nel mondo il giornalismo è sotto attacco”. “Il giornalismo non è un crimine, non è un reato – ha continuato -. Eppure, con la vicenda di Assange questa affermazione perde tutto il suo contenuto”. “Non è in pericolo solo la vita di Julian, ma il giornalismo intero. Se venisse estradato negli Stati Uniti sarebbe un precedente pericoloso con cui ogni governo autoritario e non potrebbe chiedere di condannare i giornalisti di inchiesta”, ha continuato. A preoccupare la coordinatrice di Amnesty è il “doppio standard occidentale”. “Siamo pronti a protestare se un crimine di guerra viene commesso da un regime non occidentale ma non si alza un dito se a commetterlo sono gli Stati Uniti d’America”, ha concluso.
Alberto Negri
Tra i relatori anche Giuseppe Giulietti, coordinatore di Articolo 21. “Sbagliano i giornalisti che pensano che questo sia un affare della famiglia Assange, i bavagli generano contagio – ha detto -. Assange non è un caso estremo, è un caso terribile ed ha a che fare con la libertà di stampa, ma anche con altro, con la pace per esempio, col massacro di Gaza. Facciamo un appello comune per dare una scorta mediatica anche ad Assange, facciamo un appello al sindaco di Roma perché gli sia data la cittadinanza. È un problema dell’informazione ed anche la Rai non può oscurare Assange”.
“Come possiamo definirci difensori della democrazia se non difendiamo Assange? – si è chiesto Alberto Negri, giornalista e inviato speciale de Il Sole 24 Ore per il quale da oltre trent’anni viaggia come corrispondente di guerra in Medio Oriente, Balcani, Africa, Asia centrale- Se non difendiamo i giornalisti che puntano i fari sulla verità delle cose come possiamo difendere le nostre democrazie contro le dittature e autocrazie?”.
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