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Un’inchiesta di Repubblica riaccende i riflettori su un argomento tabù per la classe dirigente

In Italia quello sul conflitto di interessi è sempre stato un argomento tabù. In particolare, dal 1994, con la “discesa in campo” dell’allora imprenditore Silvio Berlusconi, dentro e fuori dal Parlamento partiti di ogni orientamento si sono fatti la guerra per evitare che venisse approvata una legge in grado di arginare ingerenze extraparlamentari all’interno della macchina governativa.
Un tema di stringente attualità tornato alla cronaca questa mattina grazie ad un’inchiesta di Repubblica sui cento parlamentari in conflitto d’interessi.
Lo scorso luglio nell’ultima Relazione sullo stato di diritto, la Commissione Ue sottolineava come nel nostro Paese non fosse ancora stata “adottata una legislazione globale sul conflitto di interessi”. Infatti, la normativa italiana per regolare gli impegni e i guadagni extra dei parlamentari lascia ampi spiragli di interpretazione. Il ché, con la classe dirigente che governa il Paese, è un pessimo segnale. In sostanza, non sono previste norme o sanzioni per i parlamentari o per le alte cariche istituzionali che portano avanti impieghi per società private o addirittura estere, parallelamente al loro incarico pubblico.
Ed è questo il vaso di Pandora traboccato con l’inchiesta di Giuseppe Colombo e Antonio Fraschilla. I due hanno analizzato i cento “portatori di interessi”, come vengono chiamati dall’associazione contro la corruzione Transparency, setacciando partecipazioni, società, attività parlamentari e quote azionarie che li riguardano. Un lavoro dettagliato che va oltre i soliti noti Santanché, Crosetto o Gasparri, che presiede una società che ha partecipazioni in aziende di cybersicurezza e siede in commissione Affari esteri e difesa.
Ci sono deputati, senatori, ministri, viceministri e sottosegretari che hanno partecipazioni o ruoli in imprese e società. Hanno quote di aziende, ruoli in consigli di amministrazione e diverse imprese, ma si sono dimenticati di dichiararle. Eppure, come hanno evidenziato gli autori dell’inchiesta Colombo e Fraschilla - “presentano interrogazioni urgenti ai ministri su materie che riguardano quelle stesse società. In alcuni casi siedono contemporaneamente in Parlamento e in due o tre cda di aziende che con lo Stato hanno a che fare per appalti milionari. Sono, in grandissima parte, lobbisti di sé stessi”.
Quaranta di loro sono di Fratelli d’Italia, il partito di maggioranza guidato da Giorgia Meloni. A seguire la Lega di Matteo Salvini con 19, e Forza Italia di Antonio Tajani con 15. Anche nell’opposizione ci sono “portatori di interessi”. Ben 8 nel Pd di Elly Schlein, 4 in Italia Viva di Matteo Renzi e altrettanti nel Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Insomma, la sindrome del conflitto di interessi non risparmia nessuno.
Nella rosa dei cento, c’è anche Claudio Lotito - già iscritto nella lista degli “impresentabili” in corsa alle elezioni del 2022   - che oltre ad essere senatore di Forza Italia e patron del Lazio è anche a capo di grandi aziende nel settore delle pulizie e gestione di immobili pubblici. A suo nome risulta la Snam Lazio che negli ultimi anni si è aggiudicata appalti pubblici per oltre 100 milioni. E in commissione Bilancio, dove siede, ha firmato una mozione che impegna il governo a dare aiuti per l’efficientamento energetico degli immobili pubblici, oltre a due emendamenti sui diritti tv del calcio e per rateizzare le tasse dei club.
Per non parlare della deputata di FI Cristina Rossello. Oltre ad essere avvocato della famiglia Berlusconi, fa parte del cda della Mondadori e della Spafid, la fiduciaria di Mediobanca. Inoltre, ha ruoli nella Immobiliare Leonardo e in una società di consulenza aziendale. Come hanno sottolineato gli autori dell’inchiesta di Repubblica, “da sola porta con sé interessi diretti in vari settori”. Come il deputato del Carroccio Salvatore Marcello Di Mattina. Uno dei firmatari della proposta di legge “per la modifica al codice della normativa statale sull’ordinamento e il mercato del turismo”. Nulla di male se non fosse che Di Mattina è anche azionista di quattro società che hanno a che fare proprio con il turismo e la ristorazione.
Capofila dell’opposizione, invece, è l’ex premier Matteo Renzi. Da qualche anno l’emblema, dopo “il Cavaliere”, del conflitto di interessi in Italia. Oltre al suo incarico da senatore della Repubblica, fa parte del cda della fondazione saudita Future Investment Initiative, ed è anche azionista di Ma.Re Holding, che dalla consulenza strategica arriva fino alle operazioni immobiliari. Anche Alessandro Zan è nella lista di Transparency. Il deputato dem, autore del ddl contro l’omotransfobia, è amministratore unico e socio di maggioranza di Be Proud, società che ogni anno organizza a Padova il Pride Village. La società, come scriveva già nel 2021 L’Espresso, fattura intorno al milione di euro. Come ricordano Colombo e Fraschilla, Zan ha fatto sapere di “non aver mai percepito un euro come amministratore”.
Resta però indubbia, oltre che evidente, la necessità di una manovra stringente da parte del Legislatore in materia di conflitti di interesse. Nel 2022 la Commissione Ue sottolineava come “la pratica di incanalare le donazioni ai partiti attraverso fondazioni e associazioni politiche rappresenta un serio ostacolo alla responsabilità pubblica, dal momento in cui le transazioni sono difficili da tracciare e la corruzione è sempre più utilizzata per infiltrarsi nell’economia legale”. E tenuto conto dell’evoluzione delle mafie, ormai sempre più imprenditoriali e con interessi tipici delle holding, il pericolo raddoppia.

Foto © Imagoeconomica

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